04/03/2007 - 2ª Domenica del T.Q. - anno C

Iª lettura Gn 15, 5-12. 17-18 dal Salmo 26 IIª lettura Fil 3, 17 - 4,1 Vangelo Lc 9, 28-36

Il nostro Dio ha previsto molti aiuti per il cammino che, da peccatori, ci porta ad accogliere la sua santità. Noi chiamiamo sacramenti gli aiuti più consistenti che celebriamo o una sola volta in vita o, qualcuno, più e più volte. Il sacramento della riconciliazione è un dono di cui possiamo godere spesso, anche settimanalmente o mensilmente, e quello dell'Eucaristia anche ogni giorno. Essi ci vogliono sostenere nel nostro desiderio e volontà di manifestare la nostra condizione di figli di Dio anche esteriormente, con tutta la nostra condotta. Il nostro impegno morale, di obbedienza ai comandamenti di Dio, infatti, non è tanto una risposta al desiderio di essere perfetti, quanto invece al volere che la nostra vita sia una rivelazione della bontà e della sapienza del Padre! La ricerca della perfezione della nostra umanità è il traguardo di molte filosofie o religioni, in particolare di quelle orientali, come in passato lo è stato per vari orientamenti dei pagani, stoici ed epicurei! L'impegno del dominio di se stessi è la meta agognata da buddisti e yogi, da persone attente alla buona educazione e alla pace interiore. Noi non ci ritroviamo in questi movimenti. Con la nostra vita noi vogliamo dar gloria al nostro Dio e Padre, vogliamo farlo conoscere a tutti, come Gesù l'ha fatto conoscere a noi. In tal modo egli ci ha dato la certezza che siamo amati da sempre e per sempre, anche se non siamo capaci di una vita esemplare. Il nostro impegno non è un ripiegamento su noi stessi, nemmeno per diventare migliori, ma siamo e diventiamo santi volendo con il nostro comportamento dar gloria al nostro Dio. Nel rapporto con lui entra in noi lo Spirito Santo, che ci trasforma e ci fa non solo migliori, ma addirittura nuovi!

La liturgia odierna accosta l'esperienza di Abramo a quella dei tre discepoli di Gesù sul monte. Abramo fa l'esperienza di trovarsi alla presenza di Dio, da cui riceve la promessa di una numerosissima discendenza e stipula con lui un'alleanza tramite il sacrificio di alcuni animali. Anche i tre discepoli, durante la preghiera di Gesù, vivono l'esperienza della presenza di Dio: essi non ricevono promesse divine, ma la certezza che in Gesù stesso, loro maestro, si compie tutto il disegno d'amore e di salvezza del Padre per l'umanità. E questo disegno si compirà tramite il sacrificio dello stesso Signore, che offre la sua vita. Questo è l'argomento del colloquio di Gesù con Mosè ed Elia.
Gesù è salito sul monte, come Mosè salì sul Sinai. Vi è salito per pregare. La sua preghiera è vera, vera immersione nell'amore e nella volontà del Padre, e per questo il suo volto, anzi, persino le sue vesti diventano luminose, portatrici di verità, di gioia, di splendore. Chi entra nella volontà di Dio diviene un tutt'uno con lui. Solo il Figlio può accogliere pienamente la volontà del Padre con il suo stesso amore: così ne diviene la realizzazione piena. La voce che esce dalla nube e raggiunge i tre discepoli assonnati conferma questa comprensione. Gesù è dichiarato da Dio Figlio suo, e quindi re per tutti i popoli, come ci fa cantare il salmo secondo. Questa identità regale è quella tipica del Messia, di colui che porta nel mondo in maniera concreta e visibile la divinità del Padre! Egli è pure il "prediletto", come il figlio di Abramo, salito col padre sul monte portando la legna per il proprio sacrificio. Il figlio di Abramo ha potuto essere sostituito dall'ariete, perché era solo immagine del Figlio di Dio; questi invece non può essere sostituito da nulla e da nessuno: egli si offre per donare il proprio corpo e il proprio sangue, unico sacrificio che può realizzare definitivamente la salvezza con cui Dio vuole amare le sue creature.
Il fatto che Gesù abbia portato con sè tre discepoli ci rende consapevoli che egli vuole farci partecipi sia della sua preghiera che della sua gloria, ma anche della sua offerta e della sua croce. Il fatto che ne abbia voluti con sè soltanto tre ci lascia intuire che nella Chiesa Gesù stesso ha previsto ruoli e servizi diversi. È la Chiesa intera che gode l'amore del Padre e condivide l'offerta di Gesù, e nella Chiesa ognuno secondo la sua chiamata. Ognuno nella Chiesa lascia trasparire dalla propria persona lo splendore di quella luce che rese le vesti ed il volto di Gesù indimenticabili per i tre apostoli.
È per questo che l'apostolo Paolo ha proposto se stesso e il comportamento degli altri cristiani come esempio, quando scrisse ai fedeli: "Fatevi miei imitatori, fratelli, e guardate a quelli che si comportano secondo l'esempio che avete in noi". Potessimo tutti dire così! Dovremmo dire così. Dovremmo vivere con la preghiera di Gesù sempre nel cuore: allora anche la sua luce risplenderebbe. Vivere con la preghiera di Gesù nel cuore significa coltivare costantemente il desiderio di offrirci al Padre ed essere da lui accolti come sacrificio. Quando viviamo in preghiera la luce di Gesù illumina il nostro volto e lo rende amabile ai fratelli. La preghiera è per noi il monte sul quale incontriamo Dio: noi ci offriamo ed egli agisce, trasformandoci, facendo di noi un dono per il mondo, che ha continuo bisogno di conoscere e di godere la sua presenza. Egli si attende che noi ascoltiamo Gesù, suo Figlio prediletto: le parole di Gesù ci raggiungono quando il nostro cuore è immerso nella preghiera, nel desiderio di appartenere al Padre!

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