IMPARÒ L'OBBEDIENZA 

«obbedire è meglio del sacrificio,

essere docili è più del grasso degli arieti»

(1 Sam 15,22) 

1. OBBEDIENZA 

Nel vocabolario celeste questa parola non esiste.

Il Padre e il Figlio, uniti nell'Amore continuo dello Spirito Santo, non l'adoperano. I Santi l'hanno dimenticata: essi ormai partecipano alla comunione di vita delle Tre divine Persone, che per essi è gioia e festa. Essi ora conoscono solo la parola «amore»: con questo termine possono esprimere tutto, proprio tutto, anche i vari aspetti della vita trascorsa sulla terra. Mentre vivevano percorrendo le nostre strade usavano molte espressioni per dire quanto si muoveva nel loro cuore, ma nessun termine arrivava ad esprimere a fondo la loro esperienza.

Usavano il termine «povertà», ma percepivano che questa parola nascondeva la totalità del loro amore, pur rivelandone un aspetto. Usavano il termine «castità», ma soffrivano per il fatto che questa parola rischiava di nascondere la grandezza e sublimità dell'amore che li animava a donarsi esclusivamente a Dio.

Usavano il termine «obbedienza», sapendo di non essere compresi del tutto. Anzi, intuivano che questa parola era spesso fraintesa, perché mette in luce un aspetto spesso negativo del rapporto tra persone, piuttosto che evidenziarne l'aspetto divino, più vero, eterno, positivo.

Correvano lo stesso rischio usando molte altre parole, che in Dio risplendono di luce e di gloria, mentre sulla nostra bocca assumono almeno un po' del peso e dell'oscurità del nostro peccato.

Per esprimere i vari aspetti della vita vissuta in Dio anche dai Santi sulla terra sarebbe sufficiente la parola «amore».

Purtroppo però anche questo termine corre grossi rischi. Talora è usato con grossolanità, assimilato alla compassione per ogni desiderio egocentrico dell'uomo; è usato persino per esprimere l'accontentamento dei moti passionali, oppure sentimenti sdolcinati, che esprimono solo voglia di emergere in qualche modo anche davanti a se stessi.

È necessario perciò corredare il termine «amore» di aggettivi qualificanti per esprimere la sua vera natura divina.

Tra i molti aggettivi che qualificano l'amore di Dio trasmesso e partecipato a noi uomini, oltre ai termini «casto, disinteressato, libero, misericordioso, santo, potente», troviamo il termine «obbediente»!

 

2. PERCHÉ OBBEDIENZA? 

Quando Gesù parla in maniera intima e raccolta ai suoi, riuniti nella celebrazione pasquale, spiega loro cosa significa amare. È molto importante per Lui il rapporto di vero amore coi suoi discepoli, reciproco, e reciproco tra di loro, perché ci sia un «travaso» di vita, di vita divina, come la linfa dalla vite passa ai tralci e dai tralci più grossi a quelli più deboli. Ebbene, nella sua spiegazione dell'amore non c'è posto per i sentimenti d'amore, ma solo per l'obbedienza: «Se mi amate osserverete i miei comandamenti» (Gv 14,15); «Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama» (Gv 14, 2 1); «Se uno mi ama osserverà la mia parola» (Gv 14, 24). 

Queste spiegazioni dell'amore possono mozzare il fiato. L'amore è ascolto e obbedienza!

La nostra paura di fronte al termine obbedienza viene da una reazione istintiva di rifiuto; talvolta ricordiamo un'autorità esercitata in passato su di noi con violenza, senza amore. Abbiamo timore di confondere l'obbedienza con la soggezione e la schiavitù. Vogliamo essere e sentirci liberi nel senso di poter realizzare quanto ci sentiamo di fare con tutta spontaneità. Certamente soggezione e schiavitù non sono amore, non sono frutto di Spirito Santo, sono conseguenza di

un'errata impostazione dei rapporti con gli altri. Chi non sta in contemplazione di Dio e nella sua adorazione, di fronte agli altri può sentirsi soggiogato, condizionato. Oppure, se lo domina la superbia si sente «superiore» agli altri. Se non è in rapporto diretto col Padre, come figlio, questi atteggiamenti possono prendere il sopravvento in lui, e così egli avrà dell'obbedienza un concetto talmente negativo da giustificarne il rifiuto.

Ma «Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio» (Gal 4,6). L'obbedienza è un amore da figlio, non soggezione da schiavo. Un figlio che ama il padre, sta in ascolto, poiché apprezza il padre, gli dà fiducia, cerca di penetrare nei suoi pensieri per eseguirli. La vera obbedienza è amore vero. Purtroppo non abbiamo un termine che indichi contemporaneamente i due aspetti.

Amore vero è l'osservanza dei desideri espressi (parole) dalla persona amata. Così lo spiegava Gesù. Egli stesso non aveva dato e non voleva dare un esempio diverso: «Bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato» (Gv 14,31); «Ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore» (Gv 15, 10)

Del resto Gesù è colui che ha realizzato la parola del salmo 40 secondo la testimonianza della lettera agli Ebrei (10, 5-7): «Entrando nel mondo Cristo dice: "... ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà"».

L'amore del Figlio al Padre è identificato in una vita di obbedienza! E com'è grande questo amore!

 

3. L'OBBEDIENZA DAL CIELO ALLA TERRA

Ancora la lettera agli Ebrei precisa (5, 8s): «Pur essendo Figlio, imparò tuttavia l'obbedienza dalle cose che patì, e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono».

In Dio, nella sua vita trinitaria, non esiste la parola obbedienza col suo sapore amaro, perché il termine amore può esprimere tutta la ricchezza e la gioia della vita di comunione divina. Ma quando il Figlio divenne uomo, quando Egli assunse la carne mortale dell'uomo, si trovò addosso un'eredità millenaria di peccato, di ribellione, di disobbedienza. «È stato provato in ogni cosa» (4,15), tanto da dover essere chiamato «agnello di Dio che porta il peccato del mondo» (Gv 1,29).

Il Figlio di Dio dovette cominciare a vivere il perfetto amore, che è perfetta obbedienza, dentro la natura umana. E la carne umana, così legata al mondo, soffriva, soffriva per obbedire, per amare! «Imparò l'obbedienza dalle cose che patì». Pur volendo vivere da figlio di Dio non potè evitare la sofferenza che costa l'obbedire: pensiamo alla notte di preghiera trascorsa nell'orto del Gethsemani. Anzi, il soffrire gli insegnò l'obbedienza, il vero amore!

Questa scuola di obbedienza è iniziata quando Gesù era ancora giovane. Dodicenne appena, al primo pellegrinaggio alla città santa, ritenne giunto il momento di dedicarsi «alle cose del Padre» suo! Per questa convinzione era disposto a lasciare i genitori, a fermarsi nelle scuole rabbiniche. È vero: egli doveva occuparsi delle cose del Padre suo. E nella sua sapienza di dodicenne ritenne che ciò avesse dovuto significare ascoltare, interrogare, imparare, farsi interlocutore dei dottori della legge, degli scribi, forse per diventare un esperto delle Sacre Scritture come loro. Il ragazzo Gesù sperimentò questa strada per tre giorni, e poi? Dalla risposta della Madre s'accorse che per lui «occuparsi delle cose del Padre» significava stare sottomesso: «partì dunque con loro e tornò a Nazareth e stava loro sottomesso» (Lc 2, 5 I).

Così, vivendo una piena sottomissione, Egli si occupò delle cose del

Padre: è «cosa» di Dio una vita di amore obbediente, imparare a dominare la propria volontà, a sottomettere i propri ragionamenti, a stringere la carne umana in questa morsa che sembra farla morire, che sembra frustrarla. Questa è la strada per occuparsi in modo vero ed essenziale delle cose del Padre, cioè per generare amore, per diventare trasparenza dell'amore infinito, della luce divina.

Al termine della sua missione Gesù potrà dire nella sua preghiera: «ho fatto conoscere loro il tuo nome» (Gv 17, 26).

Con la sua obbedienza costata sangue Gesù ci ha fatto conoscere ' e amare quindi, il Padre: un nome d'amore che solo con l'amore possiamo incontrare; lo conosciamo quando cominciamo ad obbedirgli con amore, come ha fatto Gesù.

Altrimenti conosceremmo una immagine di Dio costruita dalle nostre paure o dalle nostre ambizioni orgogliose: uno spauracchio inesistente o un mago che illude e rende schiavi. L'obbedienza d'amore ci fa entrare a gustare la salvezza (cf Eb 5,9).

 

4. L'OBBEDIENTE 

La vita di Gesù è descritta dall'evangelista Giovanni come una vita di obbedienza. È l'amore che si manifesta obbedendo. Egli è il Figlio che gode di esser figlio, di non prendere mai il posto del Padre, di essere ascolto attento e precisa disponibilità. Per ogni sua iniziativa Egli attende i segni della volontà del Padre. Così alle nozze di Cana: scopre i segni nella disponibilità dei servi al comando espresso da Maria.

Ai discepoli preoccupati perché non mangiava Egli disse: «mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (Gv 4,34). Dopo aver guarito l'infermo alla piscina di Betzaetà dichiara: «il Padre mio opera e anch'io opero» (5, 17). Inoltre «io non posso fare nulla da me stesso; giudico secondo quello che ascolto e il mio giudizio è giusto, perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (5,30). «La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato» (7,16); «Io non sono venuto da me» (7,28); «Non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre, così io parlo... Io faccio sempre le cose che gli sono gradite» (8,28-29); «Io dico quello che ho visto presso il Padre» (8, 38). Si potrebbe continuare.

Gesù è sempre proteso verso il Padre per coglierne i cenni, i desideri, per realizzare la sua parola. È amore così pieno che giunge a ritenere ovvia la sua passione: «non devo forse bere il calice che il Padre mi ha dato?» dice a Pietro che lo voleva difendere con i metodi violenti, rifiutando la croce.

E persino in croce Gesù è attento a completare la sua obbedienza, e per obbedienza alle Scritture disse: «Ho sete». Il suo ultimo atto d'amore destinato a suscitare almeno un po' di compassione, di accoglienza. Per obbedienza alle Scritture, che manifestano l'amore di Dio per l'uomo, Gesù si fa mendicante di un po' d'acqua.

Gesù è l'obbediente.

Per questo Egli merita il nome di «figlio,,, e questo nome lo porta sempre come un nome glorioso. Per la sua obbedienza egli manifesta pienamente le intenzioni d'amore del Padre, diventa trasparente della paternità di Dio.

Gesù, l'obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Egli risulta essere così un Adamo nuovo, il vero Adamo: l'uomo come veramente Dio lo aveva voluto: un uomo che incarna l'amore! Un amore reso visibile dall'obbedienza; un'obbedienza che costa terribilmente perché il vecchio Adamo ha cambiato natura all'uomo: da figlio lo ha reso ribelle.

Gesù nell'iconografia orientale viene presentato sempre rivestito della stola dorata. In quanto stola essa visualizza il giogo dell'obbedienza che Egli ha continuamente portato. Si è sottomesso, non ha voluto fare la propria volontà, ma quella di Colui che l'ha mandato.

Il colore oro invece vuol significare il suo potere: sì, a chi è totalmente sottomesso si può dare totale fiducia: «il Padre ha rimesso ogni giudizio al Figlio» (Gv 5,22); «il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni . cosa» (3, 35). Il Figlio si è sottomesso, il Padre gli dà ogni potere (cf Mt 8, 18).

Lo stesso simbolo, la stessa stola, manifesta la totale sottomissione da parte sua e la pienezza dei poteri affidatigli dal Padre!

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