Un uomo aveva due figli

La parabola del Padre fedele, narrataci da Gesù e trascrittaci da Luca nel suo Vangelo, è conosciuta con molti titoli: il più diffuso è "del figlio prodigo".

Essa è un racconto semplice e ricco, uno strumento di vera conversione dei rapporti dell'uomo con Dio e con gli altri uomini.

È una parabola amata da tutte le generazioni dei cristiani, che hanno trovato in essa uno specchio, un insegnamento, uno stimolo al cambiamento del cuore sempre valido.

Di essa sono stati scritti moltissimi commenti e sono stati intrapresi moltissimi tentativi di lettura per le occasioni e situazioni più svariate.

E ancora non abbiamo finito! Lo Spirito Santo ci fa leggere queste parole di Gesù in modi sempre nuovi, senza stancarci mai!

All'ombra delle bellissime e fruttuose spiegazioni mi pongo anch'io con queste pagine. Non vorrei impedirti, anzi stimolarti a cercarle, per approfondire ancora più sia i magnifici significati delle pagine evangeliche che i sublimi passi della vita spirituale da compiere nel nostro cammino verso il Padre!

don Vigilio Covi

Introduzione.

"Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito."!

Con queste parole l'evangelista Giovanni ci presenta il mistero profondo di Dio. Lo presenta così ai farisei in occasione della visita che il loro rappresentante Nicodemo fece a Gesù di notte (Gv 3): essi avrebbero pensato volentieri ad un Dio che giudica e condanna i disubbidienti, un Dio da temere per la sua giustizia, un Dio pronto a castigare i peccatori.

Queste stesse parole sono rivolte anche a coloro che - allora come oggi - ritenessero Dio un illustre assente, disinteressato e indifferente a quel bene e a quel male che continua a mescolarsi nel mondo.

"Dio ha tanto amato il mondo": che cos'è questo "mondo"? sembra facile la risposta: è l'insieme degli uomini, quegli uomini però di cui è scritto:

"Tutti hanno traviato, sono tutti corrotti;
più nessuno fa il bene, neppure uno."
(Sal 14,3)

Che interesse ha Dio ad amare il mondo, questo "mondo"?

Una domanda sbagliata, eppure essa affiora nei discorsi degli uomini. È sbagliata questa domanda perché l'amore, se è vero amore, non ha interessi! Eppure noi ce la poniamo, perché il nostro amore spesso è comunque interessato. Noi conosciamo purtroppo l'amore che vive attendendosi sempre un contraccambio.

E pensiamo che l'amore di Dio sia come il nostro.

Se l'amore di Dio fosse come il nostro sarebbe alquanto limitato.

Noi siamo limitati e amiamo persone che sono tutti peccatori. Il limite del nostro amore è in noi e negli altri. Il mio amore passa attraverso i miei sentimenti e attraverso i miei sensi, e si aspetta un ritorno, una ricompensa, sempre attraverso i sentimenti e i sensi. Per questo, lo stesso termine "amore" viene adoperato per esprimere tensioni interiori e gesti sensuali, e infine anche sessuali. Per questo motivo qualche religione rifiuta di pensare che Dio possa amare l'uomo e che l'uomo possa amare Dio: non vuole - giustamente - attribuire a Dio nulla di sensuale, di egoistico!

Noi continuiamo a dire che "Dio ha amato il mondo". Sappiamo tuttavia che il suo amore non assomiglia al nostro amore, ma piuttosto il nostro amore deve cercare di assomigliare al suo. Noi riceviamo la capacità d'amare da Dio e chiamiamo perciò amore quei sentimenti e quelle azioni che possono essere riferite a Lui. Noi non ci riteniamo capaci di amare, dobbiamo imparare. Lo dice S.Giovanni: "Non siamo stati noi ad amare Dio, è lui che ha amato noi!" (1Gv 4,10). Impariamo l'amore da Dio. Guardiamo con quali azioni egli lo esercita, e così comprendiamo qual è il vero amore!

Come ha fatto Dio ad amare il mondo? "Ha dato il suo Figlio unigenito".

Questa parola è davvero rivelazione: Dio ha generato un Figlio. Egli è Padre. Egli cioè è amore. Dio è Padre e Figlio, e il Padre può "dare" il Figlio. Il Figlio lascia che il Padre disponga di sé. Questo Figlio è unigenito, l'unico!

Il Figlio di Dio vive in mezzo a noi, è dato a noi, è uomo come noi, consegnato a noi: ciò significa che Dio cerca e vuole un rapporto stretto con l'umanità, vuole che noi siamo suoi interlocutori e partecipi del suo essere amore, vive in modo da… costringerci ad accorgerci di lui. Così potremo essere salvati dalla solitudine e dalla disperazione in cui ci ha gettati il peccato di Adamo, quel peccato che ci ha avvelenato il sangue, quel peccato che noi continuiamo a ripetere fin dalla giovinezza e dal quale non siamo mai definitivamente liberi.

Stando col figlio che viene direttamente dal Padre saremo sanati, guariti, santificati!

È proprio questo figlio, il figlio che porta in sé tutto l'amore del Padre per tutti i peccatori di tutti i tempi, che cerca le nostre parole per raccontarci in che modo il Padre ci vede, ci guarda, ci incontra, ci parla, ci tratta, e, in una parola, ci ama.

Nasce così la parabola trascrittaci da S.Luca, quella parabola che certamente più di altre ci aiuta a contemplare il volto del Dio invisibile!

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Dal Vangelo secondo Luca, capitolo 15

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Disse ancora

Gesù ha già raccontato la gioia di Dio per un peccatore che ritorna a lui. L'ha raccontata con due parabole. Una di esse era ambientata nei pascoli faticosi delle montagne desertiche della Palestina, ed era destinata a farsi comprendere prevalentemente dall'uditorio maschile: il pastore fa festa con gli amici quando torna dopo aver cercato e trovato sui monti la pecora smarrita. (Lc 15, 4-7)

Per l'uditorio femminile Gesù pensa un'altra parabola, tenendo in considerazione le abitudini e le vicende che succedevano all'interno di una povera casa del popolo: la donna fa festa con le vicine quando, dopo aver affannosamente cercato con la scopa nella terra del pavimento della sua grotta, finalmente trova la dramma perduta. (Lc 15, 8-10)

Dio è capace di far festa! La sua gioia sono i peccatori che si convertono!

Chi sta ascoltando questi racconti?

Lo stanno ascoltando con attenzione "tutti i pubblicani e i peccatori" (Lc 15, 1s) che si avvicinano a lui: essi si sono accorti che egli non ha paura, come gli altri "Rabbi", di essere contaminato dalla loro presenza e si sono pure accorti che egli rivolge la parola a chiunque: non esclude nessuno dalla sua considerazione! Stupiti di questa apertura e meravigliati per la sua disponibilità a correre rischi a causa della loro presenza accanto a lui, lo ascoltano ancora più attentamente.

Il rischio è davvero presente: farisei e scribi non approvano che egli si intrattenga con pubblicani e peccatori, anzi, lo accusano esplicitamente. Lo condannano prima ancora di ascoltarlo. Non importa cosa dice: non dovrebbe dire nulla ai peccatori, e soprattutto non dovrebbe sedersi a mangiare con loro. Facendo così si contamina, facendo così sembra approvare la vita disobbediente di coloro che egli accoglie a tavola.

Anch'essi, farisei e scribi, ascoltano Gesù. Essi pure sono molto attenti: chissà che, oltre ad essere sospetto il suo comportamento, anche il suo insegnamento non sia eretico? In tal caso avrebbero nuovi motivi per condannare questo Rabbi che sembra ignorare la legge di Mosè e che mette in discussione le loro indiscusse abitudini. Essi non vedono la gioia di Dio. E se anche la vedessero, non vogliono parteciparvi! Proprio questi ascoltatori hanno bisogno di una nuova parabola.

Ed ecco il racconto che ora leggerò con calma e con gioia: esso è un "vangelo", una bella notizia destinata a sollevare molti cuori afflitti e disperati, a risanare rapporti umani falliti, a correggere reazioni ritenute giuste dagli uomini, ma non condivise da Dio, a far sì che nella Chiesa i rapporti reciproci siano ispirati dalla gioia del Padre!

 

Un uomo aveva due figli

Arrivando alla fine del racconto ammetteremo senz'alcun dubbio che Gesù, parlando di quest'uomo, pensa a Dio!

Si può rapportare Dio ad un uomo?

I fondatori di religioni antiche e nuove griderebbero allo scandalo! I mistici delle tradizioni indiane ci presentano un Dio che non può esser considerato come Persona: non è Qualcuno con cui si possa entrare in comunione! È il Tutto e il Nulla in cui l'uomo che gli si avvicina si inabissa perdendosi senza ritorno.

Coloro che sono cresciuti alla scuola di Maometto concedono a Dio di essere Qualcuno, ma gli donano una distanza talmente grande per cui non solo nessuno lo può conoscere, ma nemmeno amare. E nemmeno lui può amare l'uomo, nessun uomo. L'amore lo avvicinerebbe troppo all'uomo, che invece deve conservare la distanza abissale, distanza come tra padrone e schiavo! Se Dio amasse l'uomo, rischierebbe di essere coinvolto nella sua storia di povertà, di umiliazione e di peccato.

Gli uni e gli altri hanno capito benissimo che l'uomo non ha nulla da dare a Dio, nemmeno la propria immagine, nemmeno la propria vicinanza. Gli uni e gli altri però, per fortuna, non parlano di Dio, del Dio vero, ma di una immagine di Dio, quale essi sono stati capaci di costruire.

Del Dio vero ci parla Gesù. Dal suo raccontare noi percepiamo che egli lo ha conosciuto, lo ha amato, lo porta in sé, poiché "è nel seno del Padre" (Gv 1,18) fin dall'eternità! E soprattutto percepiamo che è il Dio vero, quello che corrisponde al nostro essere più profondo! Gesù non ha paura di presentarci Dio sotto le sembianze d'un uomo. In qualche misura lo avevano già preceduto i grandi amici di Dio del suo popolo. Essi parlavano degli occhi e degli orecchi di Dio, attenti alla situazione del povero e del debole. Parlavano delle mani e del braccio potente di Dio, pronti a sostenere, a condurre, a proteggere chi confida in lui. Parlavano dei passi di Dio, passi che accompagnano il cammino dell'uomo o gli vengono incontro! Parlavano addirittura dell'uomo creato a immagine e somiglianza di Dio! Tra le parole sante c'erano persino quelle che, rivolte ad un uomo, dicono: "Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato". (Sal 2,7)

Gesù dunque, parlandoci di quest'uomo ci parla di Dio.

Egli non ci dice nulla di quest'uomo in sé, non ci fa di lui nessuna descrizione né alcun elogio. Se è vero che l'uomo è creato a immagine di Dio è tuttavia vero che Dio non è fatto a immagine dell'uomo: ogni uomo ha dei limiti e dei difetti che non si possono ovviamente attribuire a Dio. Di quest'uomo Gesù narra solo in che relazione sta con i propri figli. Egli ci parla delle relazioni di Dio con l'uomo: è l'unico campo in cui noi possiamo entrare, in cui noi - pur peccatori - siamo entrati per conoscere il Vivente, ed è l'unico campo in cui lo possiamo eventualmente imitare.

Se l'evangelista Matteo ci riferisce il detto "siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste" (5,48), san Luca specifica di che perfezione si tratta: "siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro" (6,36). Di Dio noi imitiamo la misericordia: ci mettiamo in rapporto con gli altri così come Dio si è messo davanti a noi! Noi non imitiamo "poteri" di Dio, capacità esclusive o miracolose. Noi imitiamo solo il suo modo di rapportarsi con gli uomini peccatori: fedeltà, mitezza, bontà, umiltà, pazienza, misericordia, amore sempre e comunque. (cfr. Col 3,12) Dio non è un uomo, ma i rapporti che egli instaura con gli uomini sono tali che un uomo li può vivere con i suoi simili.

"Un uomo…". Gesù può parlarci di Dio come d'un uomo perché egli stesso è il Dio fattosi uomo. Egli è l'incarnazione dell'amore di Dio per gli uomini. Egli sente e vive e rende attuale il rapporto di Dio con l'umanità, il rapporto dell'uomo con i suoi due figli, che ora ci sta raccontando.

"Aveva due figli". Li aveva o li ha ancora? Tra i due figli c'è sempre quel contrasto che Gesù è costretto a mettere in evidenza, o è avvenuta già una riconciliazione tale che ci permetta oggi di parlare di un solo figlio?

Ma vediamo anzitutto perché due figli! Vuole Gesù parlare di una famiglia ideale, quella che oggi si limita a mettere al mondo solo due figli? Questo aspetto non è presente nel racconto. I due figli sono il più vecchio e il più giovane, il primo e l'ultimo nato. Il primogenito è quello che vanta dei diritti particolari, come l'Esaù, figlio di Isacco. Il più giovane è quello che solitamente gode le preferenze della madre, come Giacobbe.

Gesù parla di due soli figli perché sono due le categorie di persone che ora lo stanno ascoltando. Egli vuole che essi si accorgano che sta parlando di loro e di come Dio li vuole incontrare!

Davanti a Gesù ci sono due gruppi di uomini, cioè due categorie di peccatori! Ci sono i peccatori che sanno d'esserlo e s'accorgono quindi di essere da lui amati, poiché egli li accoglie e mangia con loro.

Ci sono pure ad ascoltarlo quei peccatori che ritengono di non essere tali e di avere invece dei diritti di fronte a Dio, tanto da potergli insegnare. Non gli sanno insegnare l'amore, ma soltanto la condanna e il castigo degli altri.

I due figli sono questi due gruppi di persone, così simili nel loro peccato, ma così distanti ormai: gli uni godono la vicinanza di Gesù, il Figlio del Dio vivente, tanto da sedere a mensa e far festa con lui; (Lc 5,29) gli altri, a causa di questa comunione gioiosa, guardano dall'esterno e rifiutano gli inviti e le parole d'amore che vengono loro rivolte.

Due sono i figli poi, perché nell'esperienza ormai lunga di quella Chiesa per cui l'evangelista scrive, ci sono sia ebrei che pagani seduti alla mensa del Signore. Essi sono diventati un unico popolo, un unico Figlio quindi, ma hanno sempre difficoltà ad accogliersi e amarsi come fratelli: la difficoltà parte sempre dal maggiore, che ha da rimproverare al minore il suo passato poco edificante. I cristiani provenienti dall'ebraismo si ritengono un po' più su degli altri, con diritti particolari di primogenitura, anche se battezzati nell'unica acqua e nell'unico Spirito! Anch'essi, come gli altri, sono stati salvati della salvezza che viene dalla fede nel Risorto! E di questa salvezza hanno continuo bisogno!

Due sono i figli perché tutt'oggi la storia dei singoli credenti trova riscontro ora nell'uno ora nell'altro dei due, e nessuno, proprio nessuno di noi, nemmeno io, può presentare la via nuova, quella di un terzo figlio sempre obbediente e sempre accogliente!

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