18/03/2007 - 4ª Domenica del T.Q. - anno C
Iª lettura Gs 5, 9. 10-12 dal Salmo 33 IIª lettura 2 Cor 5, 17-21 Vangelo Lc 15, 1-3. 11-32
Prima di vedere con san Benedetto i gradini dell'umiltà, ci fermiamo alla scuola di un altro grande santo, San Bernardo, che ci aiuta a riconoscere i dodici gradi della superbia. La superbia non è soltanto il contrario dell'umiltà, ma è il modo con cui il diavolo, Satana, si impossessa della nostra vita. Questo Santo ci aiuta a riconoscerla dentro alcuni comportamenti che ci sono abituali e ai quali noi non diamo molto peso. Egli vede come primo gradino della superbia sia la "curiosità, l'andare alla ricerca di ciò che non ci riguarda". È superbia: ci allontana dai nostri compiti e ci fa essere superficiali, ci avvicina alla capacità di ribellarci alla volontà di Dio. Il secondo gradino è la "leggerezza, il parlare senza discernimento": parlare senza pensare a quel che si dice, senza mettere i nostri pensieri a confronto con la Parola di Dio! Noi diremmo che questo è stoltezza, ma chi è stolto è davvero superbo: vorrebbe far passare per buona la propria ignoranza, pur avendo a disposizione la sapienza di Dio! Terzo gradino, scrive san Bernardo, è "l'allegria degli stolti". Gli stolti di cosa si rallegrano? Essi sono contenti di cose superficiali, di ciò che produce il piacere d'un momento, di quel che si mangia o si beve, di vittorie passeggere e inutili, come quelle sportive o come le vincite di denaro, e la loro gioia diventa allegria chiassosa che riempie tempo e spazio di rumore, di risate, di parole inutili. Altro gradino è "l'ostentazione di sè, con il parlare continuamente"! È la continuazione della stoltezza, continuazione di superbia, come se la mia persona potesse essere tanto importante da togliere spazio alla Parola di Dio, alla sua sapienza, e quindi al silenzio che serve per ascoltarla. Chi parla continuamente non ascolta, quindi non ama: ritiene di essere tanto importante da occupare il tempo e le energie degli altri. Quinto gradino: "il culto di sè, vantarsi delle proprie cose". Chi continua a usare il pronome "io" e l'aggettivo "mio" vede solo se stesso, e ignora gli altri, come non ci fossero. Per lui Dio pure resta lontano! È facile soffermarsi su questi gradini. Noi cercheremo di conoscerli, per formarci un sano e attento discernimento.
"Se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate,
ecco ne sono nate di nuove". Noi, che viviamo in Cristo, portiamo novità
nel mondo. Siamo creature nuove. Dove sta la novità? Noi ci sentiamo come tutti
gli altri, però abbiamo una speranza, fondata nella nostra fede, che cambia
il nostro modo di vedere, di ascoltare, di rapportarci agli altri e alle cose
del mondo. Questo modo di essere si esprime nella carità, che è un amore non
spontaneo nè voluto dall'uomo, ma viene dall'alto, tanto che è gratuito e avvolge
persino chi manifesta inimicizia verso di noi. Siamo creatura nuova, che non
vive l'eredità di Adamo, ma nasce da Dio e manifesta la sua identità di Padre.
Questo avviene tramite una conversione da parte nostra, un ritornare, dalla
gelosia e seduzione di possedere una potenza detta "divina", all'umiltà
e semplicità di lasciarci amare, e imitare l'amore di un Dio che è Padre. Questa
conversione comincia con la riconciliazione, con il riconoscere e chiedere perdono
per aver dato spazio al peccato in noi. La Chiesa accetta la nostra domanda
ed è autorizzata a darci la risposta: i suoi ministri ne hanno l'incarico e
dispongono della possibilità di ristabilirci nella comunione con Dio!
La parabola, raccontata da Gesù e trasmessaci da S. Luca, descrive molto bene
la nostra vicenda. Siamo diventati "creatura vecchia" allontanandoci
da Dio, vero Padre, ma abbiamo la possibilità di diventare "creatura nuova"
ritornando a lui. Questo ritorno non è necessario solo a chi si è allontanato
fisicamente da Dio, ma anche a chi non ha fatto propri i suoi pensieri e la
sua misericordia per tutti gli uomini. Nessuno può e nessuno deve sentirsi esonerato
dal riconciliarsi per convertirsi. Tutti e due i figli descritti nella parabola,
e che ci rappresentano tutti, sono lontani dal Padre. Quello che si è apertamente
ribellato a lui, e ha preteso in anticipo la sua parte di eredità, è un figlio
che manifesta disistima per il padre e disinteresse per il fratello. Questi
verrà a trovarsi in una solitudine insopportabile. Essa lo porterà a ricordare
con nostalgia i momenti di comunione vissuti in armonia con Dio. La sofferenza
lo renderà umile, e l'umiltà gli farà apprezzare l'essere figlio docile. L'uomo
da solo non riesce a costruirsi felicità. L'uomo con il proprio egoismo e le
proprie pretese riesce solo ad aumentare il carico di sofferenza del proprio
cuore: questo è ciò che stiamo sperimentando ogni giorno nella nostra società
che vuole rendere sacro per ognuno, fin da ragazzo, il diritto di fare quel
che gli piace. L'altro fratello della parabola narra l'altra posizione, quella
di chi si ritiene a posto perché fedele al passato, alle tradizioni, attaccato
alla famiglia, obbediente e ligio al dovere. Nemmeno questi è vero figlio. L'onestà
e l'obbedienza sono per lui motivo di pretesa, e stimolo a giudicare e condannare
il fratello, di cui non ha compassione.
Gli uomini non hanno nulla di nuovo da insegnarci. L'insegnamento sano e nuovo
ci viene solo dal padre della parabola, che fa propri gli atteggiamenti del
vero Dio. Noi dobbiamo guardare a lui, fissare lo sguardo, aiutati da Gesù,
al Padre che vuole la salvezza di tutti: tutti hanno bisogno di essere cambiati
da uomini vecchi in creature nuove, che vivano la stessa vita di Dio, del Dio
amore!