Una donna di ottantaquattro anni conosce quelli che
aspettano la «redenzione di Gerusalemme» e ad essi parla del bambino che in
quell'istante è presente entro il recinto del Tempio. Chi sono quelli Che
aspettano la redenzione di Gerusalemme? e perché Gerusalemme, la città santa
ed elevata, deve esser redenta? Già in un paesino delle montagne era risuonata
la preghiera e la lode sulle labbra di un uomo rimasto senza parola per nove
mesi: «Benedetto il Signore Dio d'Israele perché ha visitato e redento il suo
popolo».
Coloro che attendono la redenzione sono persone capaci di
lodare Dio, persone attente a leggere nelle vicende l'opera e la presenza di
Colui che crea e ama, di Colui che può e vuole intervenire nell'oggi degli
uomini. E il popolo di Dio, di cui la città di Gerusalemme è l'emblema e la
personificazione e il centro, ha bisogno di redenzione, di essere riscattato da
una situazione di schiavitù. Non è la schiavitù dei Romani, ma quella
schiavitù che ha portato a questa.
La schiavitù che porta ad essere schiavi degli uomini è
il peccato, cioè l'atteggiamento, e gli atti conseguenti, che tengono lontani
dal Padre, fuori dalla sua casa, fuori dalla strada che può portare a quella
casa. Fuori dall'orientamento a Dio e dall'obbedienza volontaria a Lui non resta
che obbedienza forzata agli istinti dell'uomo, propri ed altrui.
Il popolo di Dio ha bisogno di redenzione. Questo popolo
è erede con tutti gli altri popoli dell'esilio in cui lo ha posto Adamo. Come
tutti i popoli anche il popolo di Dio deve cercare, trovare e imboccare la
strada che con un cammino spirituale e una guida sicura può portare a godere la
visione del Volto che ci attende.
Il popolo di Dio è avviato su questa strada: ma continua
a fermarsi, a voltarsi indietro, a indugiare. C'è sempre qualcuno in questo
popolo, talora tra le sue guide, che si trattiene a contemplare idoli, e
ritenerli la mèta per tutti. E gli idoli non sono lontani, sono dentro la carne
dell'uomo stesso: anche l'uomo di Dio deve lottare contro di essi.
Gerusalemme ha bisogno di redenzione. Dev'essere strappata
dagli idoli e dalla forza della loro attrazione e dalla potenza che gli idoli
lungo i secoli hanno esercitato su di essa fiaccandola e svergognandola. Chi
entra in Gerusalemme, nella Gerusalemme lussuosa e grande dei tempi di Anna e di
Simeone, non arriva ad incontrare il volto sereno e accogliente del Padre.
Piuttosto vede ad ogni angolo mammona.
Gerusalemme è schiava di una falsa immagine di Dio. E
questa schiavitù ha una storia, molto lunga. In questa storia sono confluiti
molti peccati, gesti idolatrici di singoli e di comunità. E questi peccati
rimangono impressi nella memoria delle generazioni, che si rendono coscienti
d'essere nate nel peccato, intrise di sangue, da cui non riescono mai a
purificarsi. Non ne conoscono il modo.
Cercano disperatamente di cancellare la vergogna della
propria storia senza riuscirvi. Continuano ad uccidere tori ed agnelli e colombe
senza raggiungere lo scopo, che cioè il sangue degli animali cancelli le
macchie del sangue umano.
li peccato sta persino all'origine della tribù che abita
Gerusalemme, la tribù fortunata che può attendere il Messia come uno dei
propri figli. E' fortunata, ma non può vantarsi: il proprio capostipite, Giuda,
ha dato l'avvio alla discendenza col peccato. Una tribù sempre rossa di
vergogna.
Giuda, figlio di Giacobbe, sposa una pagana, una cananea,
figlia di Sua. Il loro primo erede, sposa Tamar, ma muore presto. Muore pure il
secondogenito Onan, dato di diritto in sposo a Tamar.
Per motivi diversi i due fratelli restano senza
discendenza. Giuda rifiuta di dare a Tamar il terzo figlio, come sarebbe stato
suo dovere: teme che - per una tragica magia - debba morire come gli altri due.
Morta la moglie di Giuda, Tamar si finge prostituta e si
pone sulla strada del suocero, mentre questi si reca al mercato. Il primo dei
due gemelli che Tamar avrà da quest'incontro incestuoso con Giuda, sarà Perez.
Proprio lui sarà erede della benedizione e figurerà tra i figli ascendenti di
Davide e poi di Giuseppe, sposo di Maria.
E così all'origine della tribù fortunata c'è un grave
peccato. «Nel peccato sono stato generato»; così dovrà riconoscere il re
Davide. Il peccato è nella mia storia, io sono figlio del peccato. Questo
peccato peserà sulla coscienza e nella carne di tutta la discendenza. La
disobbedienza a Dio nuovamente incarnata nel popolo, e continuamente operante.
Chi riscatterà questa vergogna? Chi potrà pagare per redimere questa
situazione che si trascina nella propria esistenza?
Ogni giorno il sangue di animali bagna l'altare, ogni
giorno c'è bisogno di sangue per offrire un riscatto alla propria vergognosa
situazione. Ma la coscienza del popolo non si libera mai da questo peso che
continua ad esser portato da ogni generazione.
Deve intervenire Dio stesso a dare una speranza: «Tu sei
davvero grande, Signore nostro Dio! Nessuno è come Te e non vi è altro Dio
fuori di te, proprio come abbiamo udito con i nostri orecchi. E chi è come il
tuo popolo, come Israele, unica nazione sulla terra che Dio è venuto a
riscattare come popolo per sé e dargli un nome? In suo favore hai operato cose
grandi e tremende per il tuo paese, per il tuo popolo che ti sei riscattato
dall'Egitto, dai popoli e dagli dèi» (2Sam
7,22-23).
Proprio questi dèi sono i più pericolosi nemici che
continuano a macchiare di peccato le generazioni. Il profeta Isaia dirà la
parola della grande definitiva speranza (623, I I s): '«Dite alla figlia di
Sion: ecco il tuo Salvatore; ecco ha con sé la sua mercede, la sua ricompensa
è davanti a lui. Li chiameranno popolo santo, redenti dal Signore». «Non un
inviato né un angelo, ma egli stesso li ha salvati: con amore e compassione
egli li ha riscattati» (62,9) «Ecco io creo nuovi cieli e nuova terra: non si
ricorderà più il passato, non verrà più in mente» (65,17).
«Egli redimerà Israele da tutte le sue colpe» (Sal
130,8).
L'uomo non deve preoccuparsi. Dio stesso lo ama tanto, che
lo redimerà. Simeone ed Anna hanno riconosciuto l'intervento redentore di Dio
nel bimbo portato al tempio. La sua presenza permette la libertà interiore e la
gioia più profonda. La sua presenza permette agli uomini di guardarsi in faccia
senza diffidenze, senza rimproveri, senza soggezioni. Il Redentore del popolo è
venuto! Ed Egli non redime solo il popolo in generale, egli è redentore per i
peccati nuovi, quelli di ognuno. «Il Figlio dell'uomo è venuto per servire e
dare la vita in riscatto per molti» (Mt 20,28).
«Dare la vita» è il prezzo che il figlio dell'uomo
presenta. «lo offro la mia vita» (Gv 10,
17). «Questo è il mio sangue dell'alleanza, versato per molti in
remissione dei peccati» (Mt 26,28). Il nuovo sangue che fa finalmente
dimenticare il passato è quello versato con un atto d'amore puro. Quel sangue
versato termina il processo dell'incarnazione dell'Amore puro nella carne di
peccato. Questa incarnazione era già
iniziata a Nazareth, e s'è manifestata al Giordano per realizzarsi nella
decisione libera del Getsemani e del Calvario.
Gesù incarna l'amore redentore di Dio: nel Giordano Egli
si assume il peso e la vergogna del peccato del popolo e dei singoli uomini di
tutte le tribù, sul Calvario porta a compimento l'Arnore puro che riscatta
l'umanità.
Questo suo amore mi tiene attento, desideroso di
rimanergli vicino.
Non posso ignorare chi mi ha amato, chi mi ha ridato
coraggio e fiducia di essere interlocutore di Dio. Nella vicinanza c'è
trasformazione. Egli mi comunica la forza del suo amore, ricevo da Lui capacità
di dire, balbettando, «eccomi», «mi offro con te». Egli mi travasa il suo
amore finché anch'io divento offerta e sento il mio corpo di carne e il mio
tempo d'oggi, in cui sono sospeso, diventare luoghi dove continua ad esprimersi
il suo dono, a versarsi il suo sangue, a fluire la sua redenzione sul mondo.
Partecipo anch'io del suo redimere il peccato nel mentre mi offro a lasciarmi
trasformare da lui. li mio peccato stesso e quello degli altri che finora mi
pesava addosso perde di consistenza mentre l'amore di Gesù entra in me.
Con questa novità nella mia carne, l'amore che offre se
stesso e trasforma in amore la mia vita e la mia eventuale gioia e sofferenza,
io divengo nuovo. li mio passato esiste ancora, non è cancellato, ma diviene
strumento dell'amore, esperienza e fondamento per un amore più puro, più vero,
non idealizzato, non disincarnato. Del peccato di Giuda e di quelli di Davide
come di quello di Adamo non mi vergogno più. Essi sono la situazione concreta
in cui posso lasciarmi amare e diventare amore.
Nemmeno del mio peccato mi vergogno più. Esso è
diventato esperienza e umiliazione, occasione di umiltà e indicazione di
vigilanza ad un amore che conosce così i
suoi campi d'azione più urgenti e personali.
Gesù con il versare volutamente il suo sangue per amore
è divenuto il capostipite di un nuovo popolo. E' un popolo ancora peccatore, ma
su tutti i membri si riversa la luce del nuovo e santo capostipite. Il santo
Battesimo mi immerge nella sua purezza e lava i residui della vergogna dei
peccati antichi.
Ripetute immersioni nella sua misericordia, che incontro
nella confessione, mi rendono sempre nuovamente libero, mi rigenerano, sia perché
su di me risplenda la sua opera di santificazione, sia perché la mia debolezza
non infiacchisca tutto il corpo, tutto il popolo, e non pesi su di esso.
E' veramente grande e bella l'opera di redenzione che Gesù
«mia gioia», ha operato. «Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di
Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia in virtù della
redenzione realizzata da Cristo Gesù» (Rm
3,23), «nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue» (Ef 1,
7).
Pietro ha potuto addirittura scrivere: «voi siete stirpe
eletta, sacerdozio regale, gente santa ... » (1 Pt 2,9), «ora siete il popolo di Dio»! E questo perché Gesù
sacrificò se stesso per noi «per formarsi un popolo puro che gli appartenga»
(Tt 2,14).
Noi, siamo proprio noi questo popolo. Anch'io vi
appartengo. lo non sono esente da peccato, anzi, dei peccatori sono il primo. Ma
appartengo al «popolo puro» per l'azione purificatrice del sangue di Gesù.
Egli con il suo offrirsi sulla croce ci ha pure «liberati
dalla vuota Condotta ereditata dai nostri padri» (1, 18). La nostra vita
sarebbe Senza significato, basata sul nulla, sul vuoto. Un vuoto che è
rappresentato dagli idoli che non resistono né al tempo né alla prova della
sofferenza. L'amore di Gesù portato sulla croce dà una base eterna e sicura al
mio vivere.
«Il Figlio vi fa liberi» (Gv 8,36). Sì, Gesù mi ha
liberato dagli idoli e continua a tenermi sveglio perché non li lasci
appropriarsi della mia «Condotta»; il Corpo ed il Sangue di Gesù, separati
violentemente dalla morte accolta come atto d'offerta, si riuniscono nella mia
carne quando lì ricevo nella celebrazione Eucaristica. Allora la mia redenzione
non è soltanto liberazione dal peccato e dalla sua vergogna, diventa
addirittura trasformazione, divinizzazione.
La sua forza d'amore, non solo vince il male togliendo via
dal cuore i rimorsi, che altrimenti durerebbero all'infinito, ma mi rende capace
di fare ciò che Lui ha fatto: trasformare le sofferenze che s'abbattono su di
me, causate anche dal peccato degli altri e del mondo, in occasione di offerta,
di amore. L'imprecazione e la lamentela cedono il posto al sorriso, al silenzio,
al ringraziamento, all'adorazione.
Giuda, figlio di Giacobbe, col suo peccato può occupare
ancora la pagina delle Sacre Scritture. Diviene una pagina che fa risplendere
ancora più grande la misericordia del Padre, la libertà del Figlio e la forza
santificatrice dello Spirito:
Gloria a
Te, Padre, gloria a Te, Gesù, gloria a Te, Spirito Santo: eterna è la tua
misericordia!
Questo figlio di Giacobbe riveste una grande importanza
nella vita del credente: di lui la Bibbia si occupa in maniera prolungata e
dettagliata! Ben undici capitoli del libro della Genesi sono dedicati alla sua
vicenda.
Giacobbe lo amava più di tutti i figli. Egli infatti era
il primogenito della moglie Rachele, la donna del suo cuore. La tunica che gli
fece confezionare, una tunica dalle maniche lunghe, era il segno esterno di
quell'amore particolare.
Ed ecco il contrasto: gli altri figli non imitano il
padre, non imparano da lui, anzi! essi odiano colui che il loro padre ama. Il
prediletto del padre viene odiato dai fratelli: che il loro movente sia invidia
o gelosia o altri sentimenti ancora non ha importanza, essi non godono d'avere
un fratello amato dal padre, un fratello che, per di più, sogna le proprie
grandezze. I sogni che Giuseppe racconta con infantile ingenuità incontrano il
silenzio del padre che s'interroga sul loro significato, ma provocano ancor più
l'invidia dei fratelli non abituati a discernere i modi di parlare e di
comunicare di Dio. Essi hanno ancora un cuore pagano: non sanno che Dio parla...
e che può parlare con i sogni degli altri!
Il padre sembra non dar peso all'invidia degli altri
figli: egli è certo che colui che egli ama è amato anche da loro! e perciò
manda Giuseppe a far loro visita, a vedere come stanno. Essi, quasi all'unanimità,
complottano contro di lui, lo spogliano, lo gettano in una cisterna, lo vendono
per venti sicli d'argento agli Ismaeliti, che lo portano in Egitto. Schiavo di
Putifar, è onorato da Dio con successi. A causa della voglia peccaminosa della
moglie del suo padrone, vien gettato in prigione. Quand'egli raggiunge i
trent'anni viene presentato al faraone per ascoltarne i sogni e per capire la
volontà di Dio. Eccolo a capo di tutto il paese d'Egitto, poiché il faraone
riconobbe: «potremo trovare un uomo come questo, in cui sia lo Spirito di Dio?»
(41,38). Dopo gli anni di abbondanza giungono realmente i sette previsti di
carestia. E Giacobbe, dalla terra di Canaan, si vede obbligato a mandare i
propri figli in Egitto per acquisti di viveri, «perché possiamo conservarci in
vita e non morire»!
Questa è l'occasione in cui Giuseppe può finalmente
leggere la propria vicenda, interpretare i fatti dolorosi della propria vita, le
ingiustizie subite e le glorie ricevute, e riconoscerli come interventi
provvidenziali dell'amore di Dio. «Dio mi ha mandato qui prima di voi per
conservarvi in vita» (45,5) «e per salvare in voi la vita di molta gente.
Dunque, non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio, ed Egli mi ha stabilito
padre per il faraone» (v. 8).
Giuseppe riesce a leggere persino il peccato grave dei
fratelli che l'hanno odiato e venduto schiavo come strumento provvidenziale
usato da Dio per il loro stesso bene.
Una vita strana quella di Giuseppe. Gli uomini lo
abbassano, Dio lo innalza. Solo alla fine si scopre il vero motivo di tutte
quelle vicende tristi provocate dal peccato degli uomini; allo stesso modo si
scopre pure che vero motivo della gloria ricevuta era il servizio! «Dio mi ha
Portato qui». Tutto era stato calcolato. Giuseppe era stato predestinato ad
essere il salvatore dei suoi fratelli dalla carestia, dalla fame, dalla morte.
Egli era un uomo predestinato!
Dio conosce il futuro, le necessità degli uomini che
verranno, e nel suo amore provvidente e previdente lo prepara e usa persino lo
sofferenza, addirittura il peccato, perché diventino strumento e occasione di
vita, di salvezza, di gloria. Egli prepara lontano, in maniera sapiente, la
salvezza e la storia della salvezza. Prende come suoi collaboratori gli uomini
deboli, impotenti, cosicché risulti con evidenza che è Lui stesso ad agire. E'
il suo amore che domina la storia! Essa, per colpa del peccato degli uomini, è
intrisa di sofferenze e di morte, ma a loro volta queste sofferenze e questa
morte possono venir accolte perché, in maniere per noi imprevedibili, siano
occasione o strumento di una nuova e più grande manifestazione dell'amore di
Dio. Quante analogie troviamo tra la storia di Giuseppe e la vita di Gesù! Gesù
è il Figlio prediletto, rivestito di una tunica tessuta tutta d'un pezzo
dall'alto! E' il figlio prediletto dal Padre e odiato dai fratelli. Mandato a
loro per beneficarli è venduto e ucciso.
Egli così va dal Padre per preparare un posto. In lui non
c'è spazio per il risentimento; anzi, Egli vede l'odio che s'abbatte su di sé
come l'occasione per offrire da se stesso la propria vita. Egli vede la morte
provocata dagli uomini come il calice offertogli dal Padre, che lo innalza alla
sua destra donandogli potere in cielo e in terra per beneficare gli uomini
stessi che l'hanno ucciso.
Ciò che il Padre prevede e prepara è sempre la salvezza
degli uomini.
Essi rifiutano, ed Egli adopera questo rifiuto perché la
salvezza entri ancor più
in profondità nella loro vita! Gesù - come Giuseppe - è un predestinato
alla gloria, che è servizio alla pace di tutti. Potremmo perciò dire che
chiunque sia predestinato da Dio non lo è anzitutto ad una propria gloria - e
tantomeno alla dannazione! -, ma a partecipare al dono della salvezza di Dio a
tutti! il popolo infatti, tutto il popolo e tutta l'umanità è predestinato da
Dio ad essere salvato, a rientrare nella dimensione di amicizia col Padre. Dio
non predestina alla condanna come taluno ha pensato ancora è tentato di
pensare! «Dio non ci ha destinati alla collera, ci ha destinati all'acquisto
della salvezza» (Ts 5,9).
Giuseppe è stato destinato ad essere salvatore dei suoi
fratelli: per questo ha sofferto per causa loro e per loro amore.
Dio può chiedere anche a me di soffrire, di sopportare
dolore, di portare il peso dei peccati anche altrui (oltre che miei).
Certamente ciò succede perché sono destinato a
partecipare all'opera della salvezza, a preparare la realizzazione della
salvezza dei miei fratelli.
Posso sempre quindi affrontare la sofferenza di qualunque
tipo, compresa quella derivante da ingiustizie, senza disperazione e soprattutto
senza risentimenti e vendette, perché attraverso di essa è in atto l’opera
della salvezza, mia e altrui.
Giuseppe ci mostra come leggere la nostra storia di
sofferenze, causate da ingiustizie, come necessaria preparazione alla salvezza
dei fratelli: «è stato Dio a farmi venire qui». La gloria dell'esser vicerè
d'Egitto non lo fa montare in superbia, perché anch'essa è solo servizio alla
salvezza, sia dell'Egitto che dei fratelli.
Questa vicenda ci illumina sul vero senso della
predestinazione. Dio ha destinato tutti gli uomini ad un'unica meta, ad esser «conformi»
al suo Figlio, a vivere una vita da figli con Lui, Padre. Egli ha dato una via
per raggiungere questa meta, e la via è sempre - per tutti l'uomo Gesù, che
vive la figliolanza in modo pieno dentro tutti i limiti che l'esser uomo
comporta. Dio vuole che l'uomo, che è peccatore, che si trova cioè fuori
dell'armonia piena con Lui e quindi sminuito terribilmente nel suo essere -
perché privo della relazione d'amore fondamentale - sia salvato, sia rimesso
sulla strada per giungere alla meta, a godere del Padre!
Sono destinato alla «salvezza»!
Attorno a noi questo termine «destino» viene usato con
un significato pagano. Me la sento ripetere spesso questa parola: è stato il
destino? come se fosse una divinità che ha scritto o programmato come e quando
uno deve ammalarsi o morire. Questa credenza diffusa considera i fatti solo
esteriormente, astraendoli dal nostro rapporto con Dio Padre e dalla nostra
possibilità di scelte libere, pur se sbagliate. Residuo dell'antico paganesimo,
non ancora spento del tutto nella memoria del popolo. Ignoranza della Paternità
di Dio che ci predeStina alla sua pace e fa Cooperare tutto, anche la sofferenza
e la morte, per questo scopo.
S.Paolo.usa spesso nelle sue lettere il termine «predestinazione»,
ma sempre in
senso positivo per manifestare l'amore lungimirante di Dio! «In Lui ci ha
scelti... predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù
Cristo» (Ef 1, 475).
«Predestinandoci secondo il piano di colui che tutto
opera efficacemente secondo la sua volontà, perché noi fossimo a lode della
sua gloria» (1, Il). «Quelli che da sempre egli ha conosciuto, li ha
predestinati a essere conformi all'immagine del Figlio suo... Quelli che ha
predestinati li ha anche chiamati...» (Rom
8,29). I predestinati vengono chiamati: hanno perciò la possibilità di
accettare o meno il disegno cui Dio li prepara, il servizio che il Padre chiede
loro. L'uomo viene avvicinato da Dio come uomo, come persona libera, capace di
rispondere liberamente all'amore che lo interpella. Ed è solo amore il volto di
Dio che s'avvicina all'uomo, solo amore, anche se l'uomo si trova schiacciato da
varie situazioni: «chi ci separerà dall'amore di Cristo? Forse la
tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la
spada?... In tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui
che ci ha amati» (8, 35-37).
«Io sono infatti persuaso che né morte, né vita, né
angeli né principati, né presente, né avvenire, né potenze, né altezza, né
profondità né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in
Cristo Gesù, nostro Signore» (38s).
Ciò a cui il Padre ci destina, o predestina, non è il
corso della vita terrena, tanto meno l'inferno. Egli prepara tutto per la nostra
gioia eterna, per la nostra gloria, come dice il re ai suoi
"benedetti" nella parabola del giudizio: «venite, benedetti del Padre
mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del
mondo» (Mt 25, 34). Il fuoco eterno
invece non è previsto per gli uomini, bensì «per il diavolo e per i suoi
angeli» (25,41). L'uomo lo sceglie rifiutando l'amore gratuito ai piccoli
fratelli di Gesù.
La gioia cui siamo destinati, come ci ha detto s. Paolo,
può esser preceduta da tribolazioni e angosce, malattie e persecuzioni. Sono le
situazioni che provano e preparano, situazioni che allargano la strada perché
altri possano seguirci. Così è successo a Giuseppe, così a Gesù, così agli
Apostoli e ai martiri, così ai confessori della fede.
Noi teniamo lo sguardo fisso alla meta, e perciò nulla
potrà spaventarci né scandalizzarci, cioè nulla potrà farci da ostacolo nel
cammino verso la gioia eterna. E questo cammino, anche quando sarà aspro e
faticoso, sarà un servizio d'amore puro per gli uomini, tutti gli uomini, cui
siamo destinati come fratelli. E quegli uomini, fratelli, che ci fanno soffrire,
saranno i primi a beneficiare del frutto della nostra sofferenza!
Signore Gesù,
ti ringrazio e ti benedico!
Tu sei il
primo predestinato a raggiungere la gloria, ad essere gloria di Dio, del Dio che
vuol essere Padre per tutti gli uomini. E tu giungi alla tua destinazione e
completi il tuo servizio passando per una valle oscura, quella della morte,
dell'abbandono di Dio! Tu sei il segno che il Padre fa sul serio: egli vuole
veramente che noi lo raggiungiamo; per questo ha chiesto a Te, figlio unigenito,
di entrare nelle nostre sofferenze, nella nostra distanza da Lui per
Ravvicinarci.
Tu hai
accettato di camminare nell'oscurità e nel dolore perché noi, che eravamo
tenebra, potessimo seguire la tua luce.
Come
Giuseppe, e più di lui, hai accolto d'essere odiato e rifiutato e messo a morte
dai fratelli per precederli e preparare loro un posto, un trono nel regno della
pace. E quando essi ti raggiungono, anche se non ti sanno riconoscere, tu non
rinfacci loro il peccato, ma riveli loro la bellezza del disegno di Dio: «non
siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio»!
Grazie,
Signore Gesù!
«Dapprima lo condurrà per vie tortuose»!
Questa parola che sembra l'osservazione di un fiume che
scorre verso il mare, oppure il faticare di un sentiero che raggiunge la vetta
d'una montagna, è divenuta la biografia dei santi, degli uomini di Dio, di
quelle persone che Dio ha scelto, coinvolto nei suoi progetti, educato
all'obbedienza e infine mandato come testimonianza. «Dapprima lo condurrà per
vie tortuose».
E' la storia di Mosè. Mosè è un ebreo con cultura
egiziana. Ebreo debitore agli egiziani. Un omicidio, operato come intervento
umanitario di solidarietà, lo costringe alla fuga, lontano da ebrei e ed
egiziani. Suo asilo è il deserto. Il luogo inospitale diviene la sua dimora
stabile.
Anche le sue vie interiori sono tortuose. Qual è il suo
dio? quello degli ebrei o quello degli egiziani? Il primo non lo ha conosciuto,
il secondo non lo ha amato. Le tortuosità della vita lo hanno tenuto lontano
dalla possibilità di vedere e incontrare un Dio.
Ora è nel deserto, nascondiglio dagli uomini. Mosè fugge
gli uomini che gli sono diventati nemici. E quegli uomini che non gli hanno
fatto incontrare un dio da amare, ora non impediscono più a Dio stesso di
manifestarsi a lui.
Egli non desidera più tornare tra gli uomini: il deserto
è diventato la sua casa, il luogo di sua moglie e dei suoi figli. Qui Mosè si
trova bene. Non gli manca né il pane né l'amore. Qui Dio, un Dio misterioso,
sconosciuto e attraente come il fuoco, attira a sé Mosè. E' la curiosità che
si fa tramite dell'incontro.
Mosè si alza sconvolto. Un Dio che egli nemmeno conosce
lo vuole incaricare di una missione proprio là donde era fuggito, proprio ora
che s'è adattato al deserto.
Questo Dio che arde e brucia senza consumare si fa
conoscere con nomi di uomini: lo sono il Dio di Abramo, di Isacco, di
Giacobbe.Per conoscere questo Dio che gli ha parlato, Mosè dovrà farsi
raccontare le vicende e la fede di Abramo, di Isacco, di Giacobbe. Questo Dio ha
dei progetti, e non li realizza da solo, Egli vuole coinvolgere Mosè, l'uomo
fuggito. Ed è un Dio che non fa leva sui sentimenti dell'uomo che interpella, né
sui sentimenti affettivi, né su quelli di compassione, ma solo sulla propria
autorità. Egli continua a dire «Mio popolo», non dice mai «tuo popolo». Mosè
viene orientato da questo Dio ad un popolo che appartiene a LUI: è secondario
il fatto che Mosè stesso si senta o no coinvolto. Ora è Dio, non il popolo,
cui egli deve rispondere.
Dio ha udito il grido e visto la miseria del suo popolo.
Dio decide l'intervento. Egli non chiede pareri a Mosè, non gli chiede
valutazioni né indicazioni, ma solo obbedienza: «ora va'. lo ti mando dal
faraone. Fa’ uscire il mio popolo».
Quanto Dio ha deciso lo dovrà fare l'uomo. Dio vuol
liberare, ma lo farà Mosè. Le sue resistenze non sono prese in considerazione.
Mosè ricalcitra. Egli si sente incapace, non adatto, ha paura, è diffidente.
Vuole dei segni, ma non crede nemmeno ad essi.
Il bastone che diventa serpente e il serpente che diventa
bastone non convince quest'uomo che ormai vive comodo nel deserto. E sembra
invece che Dio si convinca sempre più che la propria scelta è azzeccata: Mosè
incapace e incredulo è proprio la persona adatta. Dio non cede: «Io ti mando».
Questa parola sarà la forza e la sicurezza di Mosè: «lo
ti mando».
Mosè è un mandato. Egli non agirà di propria volontà o
di propria iniziativa: avrà sempre le spalle al sicuro, nella fede: Io! lo ti
mando. Dio è impegnato.
Mosè avrà da combattere a destra e a sinistra, col
faraone e col popolo stesso, con l'evidenza esteriore e con i sentimenti
interiori, e sempre quell' «lo ti mando» gli è di rifugio e sicurezza. Nelle
difficoltà, nella solitudine più completa Mosè avrà un solo sostegno: «Io
ti mando». E' la certezza d'aver udito questa parola che renderà Mosè sempre
più coraggioso e deciso. Anche nella preghiera - la sua lotta più difficile
perché è lotta con il suo Dio - quell'«Io ti mando» produce sicurezza e
fermezza fino ad ottenere che Dio ascolti più Mosè che non i propri
proponimenti. L'uomo «mandato» non si lascia abbattere dalla propria
impotenza, dalla propria incapacità, nemmeno dal proprio peccato.
Il nuovo e vero Mosè dell'umanità, Gesù, vive la
propria presenza tra gli uomini con la stessa certezza del suo prefiguratore.
Gesù non ricalcitra, anzi, si offre: «ecco, io vengo», Egli dice.
Ma starà nel mondo cosciente di essere mandato. Nel solo
Vangelo di Giovanni appare quarantadue volte: «colui che mi ha mandato»! Gesù
sa d'esser mandato. Questa coscienza gli dà forza e sicurezza, ma questa
coscienza lo tiene pure in costante contemplazione. Egli è rivolto, proteso
sempre a vedere e ascoltare e intuire la volontà e il desiderio e l'opera di
Colui che lo ha mandato. Questa contemplazione lo occupa totalmente.
Egli non ha null'altro da dire se non le parole di colui
che lo ha mandato, e non vuole compiere altro se non le sue opere. E ancora, Gesù
è così attento al proprio esser mandato che non accetta alcun incarico da
altri. Gli uomini lo vorrebbero acclamare loro re: Gesù fugge, perché non è
questa la regalità che ha ricevuto come compito dal Padre.
Nell'obbedienza a colui che lo ha mandato Gesù trova pace
e sicurezza, autorità e umiltà. L'umiltà soprattutto, nonostante la chiarezza
della propria identità. Egli sa di provenire dal Padre, di avere autorità sul
sabato e sugli spiriti, sa d'esser figlio eterno di Dio, e tutto questo con
umiltà. Ciò è possibile perché sa d'esser mandato.
Sapere d'esser mandato è l'atteggiamento che Egli vuole
inculcare ai suoi discepoli: per questo li manda allo stesso modo che lui è
stato inviato: «Come tu hai mandato me nel mondo così anch'io li ho mandati
nel mondo» (Gv 17,8).
E il giorno di Pasqua alla prima apparizione: «come il
Padre ha mandato me, così Io mando voi» (20,21).
Gesù ha atteso la propria risurrezione per mandare i
discepoli. Egli vuol mandarli non a fare qualcosa, ma a testimoniare e
annunciare ciò che è successo: come Egli è testimone del Padre, così essi
saranno testimoni del Figlio. Essi potranno annunciare la vittoria di Gesù,
testimoniarla con la loro gioia, con una vita di amore disinteressato. Tutti i
discepoli di Gesù sono dei mandati.
Qualcuno pensa che solo i preti si debbano sentire
mandati, però io ho visto che se un cristiano qualunque non si sente un mandato
fa molta difficoltà a essere cristiano. Se un cristiano ha coscienza chiara
d'esser mandato dal Signore Gesù come suo testimone sa districarsi con sapienza
evangelica nelle difficoltà, ha forza nel sopportare le ingiustizie, le
ingiurie e le persecuzioni.
Se un cristiano vive come un mandato da Gesù riesce ad
amare i nemici e a vincer molte prove, perché sa di dover essere testimone di
qualcosa che non è suo, di un amore e di una vita che gli sono superiori.
Chi sa d'essere mandato ha chiarezza riguardo alla propria
identità di credente e alla importanza del proprio compito spirituale.
Chi non si riconosce come un «mandato» si adagia
facilmente nella ricerca di sistemazione nel mondo, nella ricerca di comodità,
di giustizie, di sicurezze. E il suo essere cristiano perde le connotazioni
caratteristiche per ridiventare un pagano che si rivolge a divinità con nomi
cristiani.
il cristiano che sa d'esser mandato comprende cosa
significhi esser «straniero e pellegrino» sulla terra, e comprende e gode di
essere «familiare e consanguineo» di Dio.
Certamente anche per me prete vale lo stesso discorso. Se
so d'esser mandato sono difeso dalla tentazione di comportarmi come se fossi
padrone della fede degli altri. Se so d'esser mandato riesco ad orientare con
maggior chiarezza i colloqui e la predicazione in modo da far risaltare il Volto
e la Parola di Colui che mi manda. Altrimenti mi fermo ai miei ragionamenti. Ed
i miei ragionamenti si abbassano con tanta facilità nella ricerca di prudenze e
valutazioni umane, che annullano la forza del Vangelo. Se dimentico d'essere un
mandato perde vigore la testimonianza, divento psicologo o filosofo o sociologo
o filantropo che cerca di farsi accogliere dal mondo con cose che piacciono al
mondo. Ingannerei il mondo e tradirei il mio ruolo che sgorga dall'amore del
Padre per il Figlio.
Preti e cristiani non preti proveniamo tutti dallo stesso
Signore e siamo insieme mandati nel mondo per essere agnelli in mezzo ai lupi.
Gli agnelli sono una vita nuova, diversa, vita che non usa violenza o dominio,
vita disposta a portare il peso dei peccati altrui, come Gesù agnello di Dio.
Siamo mandati a vivere la vita di Dio, il Dio uno e trino,
il Dio che si fa amore. Siamo mandati a fare la sua volontà, a manifestare cioè
la sua bontà e bellezza. Lo faremo operando secondo i carismi che ciascuno ha
ricevuto, badando di conservare e accrescere l'unità che ci è stata donata.
Siamo tutti, noi cristiani, dei mandati, come Gesù, come
Mosè. La liturgia ce la ricorda spesso, anzi ci rinnova spesso il mandato. Ogni
azione liturgica si conclude col comando: andate in pace!
Dico sempre volentieri questa parola, come un invito, o
addirittura come un comando: andate!
Mi pare di fare un dono a quanti hanno ricevuto con fede e
amore la Parola di Dio e il Corpo di Cristo e hanno cantato con gioia le sue
lodi: andate!
Ora inizia per voi la missione. Ora siete inviati! Avete
ricevuto, ora andate a distribuire. Ho fiducia in voi, Dio ha fiducia di voi.
Siete stati arricchiti, purificati, riempiti e trasformati: non state qui a
godere la vostra unione con Dio e la vostra comunione reciproca, ma andate e
illuminate il mondo, portate Spirito Santo a coloro che non sono venuti;
riversate l'amore di Dio su coloro che incontrate perché anch'essi lo
incontrino in voi e ne ricevano il profumo; riempite di un nuovo spirito le
istituzioni umane che vi attendono! Le vostre case, le vostre famiglie, i vostri
quartieri, le varie organizzazioni e tutti gli ambienti entro i quali siete
inseriti possano ricevere da voi un soffio nuovo, un nuovo respiro: andate, voi
che avete vissuto in pace con Dio, disseminate pace sui vostri passi.
Ricordatevi che siete mandati: io vi mando nel nome di Gesù,
che ha detto: «vi mando come agnelli in mezzo ai lupi». E ancora ha ripetuto:
«come il Padre ha mandato me così io mando voi»:
Sono contento di dare quest'ordine, così nessuno più se
ne va come uno che s'allontana, come uno che decide da sé il proprio compito e
ruolo, ma come uno che ubbidisce, e perciò il Signore stesso lo accompagna con
la sapienza del suo cuore e con la potenza del suo Spirito!
Chi sa d'esser mandato ha una forza interiore
meravigliosa, che non è sua, non è umana. Chi sa d'esser mandato, di quando in
quando ricorda e contempla colui che lo manda: è il Signore Risorto, Gesù,
colui che vince il mondo!
E ancora e aiutato a vedere coloro cui è inviato non come
persone indifferenti, ma come «mio popolo», come popolo di Dio che attende
d'averne coscienza.
Le energie di colui che è mandato sono quelle dello
Spirito che egli riceve nel continuo rapporto di dipendenza e contemplazione del
Signore Gesù, che alita ininterrottamente il suo Soffio Santo! E chi è mandato
non soffre più crisi di identità, perché sa di essere un testimone, sa il
perché della sua presenza - anche se silenziosa, anche se incompresa -, in
qualunque ambiente: egli deve riflettere la luce che viene dall'alto, dal Sole
intramontabile.
E chi è mandato sa ancora di non essere solo. Molti altri
sono stati mandati insieme a lui, con lo stesso scopo e con le stesse energie
interiori! Egli sa di essere parte di un'unità, membro di un corpo nel quale
vivere l'unità e l'obbedienza.
Signore Gesù, mandato dal Padre, Tu hai lasciato la
gloria di cui godevi prima della creazione del mondo. Sei giunto davanti a me
mandato dal,Padre. Per questo io ho sentito dalla tua presenza l'amore eterno di
Dio! Come Mosè è stato mandato al popolo per dare un messaggio di liberazione
e per esserne guida sulla via verso la patria, così Tu sei venuto a noi!
Ed ora, Gesù, sono lieto di partecipare anch'io al tuo
esser mandato. Sono lieto di esser membro di quel tuo corpo che è nel mondo per
continuare nei secoli la tua missione.
Sono lieto e fiero d'essere ovunque sapendo che tu mi hai
detto: ora va'! Ovunque sono, so d'esser qui con un compito per il quale tu ti
sei impegnato.
Tu mi hai detto e mi ripeti. Io ti mando! Perciò eccomi
nel mondo con fiducia nella potenza del tuo amore, anche quando mi pare d'esser
su vie tortuose. «Sulla tua parola» vivo e opero e parlo. Sono poggiato su di
te. Gloria e grazie a te, l'inviato di Dio che mi coinvolgi.
Nulla osta: don Iginio Rogger, cens eccl. - Trento, 7
ottobre 1991