Il primo personaggio storico del racconto biblico pare sia
Abramo. Il capostipite del popolo di Dio fa la sua apparizione nella storia
degli uomini quando viene chiamato da Dio, anzi, quando gli risponde. Da quel
momento egli non è più un qualsiasi essere umano, ma un volto preciso, con un
nome-messaggio, con una missione che lo rende prezioso per Dio nel mondo. Dal
momento della risposta il nome di Abramo rimarrà legato per sempre al nome di
Dio che lo ha chiamato. E sarà un nome destinato a rivelare l'identità di Dio
e a custodirla dalla facili immagini intellettuali che l'uomo è sempre tentato
o provocato a costruirsi.
Abramo, il chiamato che risponde!
La chiamata di Abramo è alquanto strana. Il suo Dio gli
ingiunge: «vattene». Una parola che mette paura. Non è però un «vattene via
da me», ma «vattene via dal tuo paese, dalla tua patria, dalla casa di tuo
padre verso il paese che io t'indicherò» (Gn 12,
1).
Nella delimitazione e precisazione degli spazi da lasciare
c'è un crescendo di intimità e di affetti che rendono dolorosa l'obbedienza.
Vattene: sei al posto sbagliato; là dove sei, in quelle sicurezze e comodità
che godi c'è la tua rovina. Vattene.
Ciò che hai non è più tuo. li nuovo può venire solo
dopo che hai lasciato il conosciuto, l'amato, il posseduto.
Vattene dal paese: dai luoghi conosciuti, dal clima
abituale, dalle abitudini incarnate, dagli dèi protettori.
Vattene dalla patria: dai legami sociali, dai rapporti di
fiducia reciproca instaurata coi deboli e coi potenti, dalla protezione delle
leggi, dalle ambizioni della stima degli uomini che ti apprezzano.
Vattene dalla casa di tuo padre: lascia i legami affettivi
più cari, coloro che si sentono obbligati a proteggerti, coloro che s'attendono
da te aiuto, lascia le tradizioni e le feste che rallegrano la tua vita e le
danno significato.
Verso il paese che io ti indicherò. Abramo deve nascere
di nuovo: deve farsi bambino, lasciarsi portare, guidare. Non può prendere
informazioni da nessuno, deve stare nella posizione di chi attende ogni giorno,
nella posizione di chi non può mai
essere protagonista nemmeno della propria vita. Egli deve solo credere, e
attendere, e ascoltare. Non sa se il nuovo paese è migliore o peggiore di
quello conosciuto e lasciato. Non sa cosa vi troverà. Non ha elementi di
giudizio per poter dire di riconoscerlo. Non saprà forse mai di esservi
arrivato.
Abramo percepisce che la sua vita deve diventare ascolto.
Egli è e rimarrà uno che viene chiamato. Attende la
voce.
Dovrà per questo essere inquieto? nervoso? irritato e
irritante? Anzi. Il suo appoggio ora è così sicuro che vi trova pace piena.
Abramo non sa dov'è nel suo cammino, non sa se è giunto o no a destinazione,
non sa nulla. Ma egli sa di essere nell'onda della voce che lo chiama. Perciò
riposa. Nella fede trova pace e sicurezza, riposo e consolazione. Chi conta per
lui è colui che lo chiama: lo può definire Dio. E noi lo chiamiamo «Dio di
Abramo», cioè Dio che chiama l'uomo e, se l'uomo risponde, lo accompagna, lo
fa riposare sicuro nell'insicurezza. Abramo è in viaggio.
Il suo viaggio diventa il viaggio di colui che sì
distacca dal mondo per aderire a Dio.
Il suo viaggio è una scuola per tutti gli uomini, scuola
pratica e graduale per imparare il distacco dalla terra per aderire alla voce di
Dio. Imparare a vivere imparando a morire.
Riceve delle promesse attraenti, che non vedrà mai
realizzate: anche queste diverranno un nuovo terreno da cui allontanarsi per
tenere occhi e cuore solo in colui che chiama. «Farò di te un grande popolo, e
ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione ... ».
La sua vita che continua a morire, a lasciare tutto, diverrà dono per tutti.
Dopo che Abramo avrà ubbidito, e si sarà dimostrato
perseverante e avrà dato prove sicure di fede, ecco un'altra chiamata. Dovrà
compiere un atto che rimanga come un segno per tutta la vita. Sarà un segno
solenne e ufficiale. «Sia circonciso tra di voi ogni maschio». Quella
circoncisione sarà un segno della sua chiamata. La presenza di Dio nella sua
vita avrà conseguenze così incarnate. Quel segno sarà una conferma della
chiamata e una consacrazione della risposta.
Ora Dio può cominciare a realizzare la promessa: nasce
Isacco. Abramo è felice. Di che cosa? di colui che lo chiama o del premio?
Un'ulteriore chiamata è destinata a rafforzare in lui la capacità di lasciarsi
chiamare, di staccarsi da tutto per essere uno con colui che lo ha scelto. «Abramo,
Abramo! prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami ... ». E' la chiamata
alla prova. Abramo deve dar prova di aver seguito il suo Signore, e non i doni
che gli sono stati promessi. Egli ha seguito il suo Dio e non il suo amor
proprio. E' rimasto fedele al suo Dio e non ha ceduto a cercare la propria
gloria con i doni di Dio.
Abramo mostrerà che veramente egli ama Dio, non Isacco.
Isacco gli preme tanto quanto preme a Dio.
Il chiamato, il protochiamato, supera la prova: egli sta
continuando a rispondere, non si è dimenticato di essere un perenne chiamato,
non torna a volgere lo sguardo a sé, alle proprie sicurezze, alla propria terra
e ambizione e gloria tra gli uomini.
E Dio riconferma il premio: ti benedirò! e la gloria
universale: «saranno benedette tutte le nazioni della terra, perché hai
obbedito alla mia voce» (22,18).
Dio è ancora quello di Abramo, il Dio che chiama l'uomo.
La voce di Dio ora risuona dalla bocca di Gesù.
Gesù continua a chiamare. Gli uomini possono essere tutti
degli Abramo, dei chiamati. Chiamati a lasciare, lasciare... A quante cose sono
attaccati gli uomini! La prima parola che Dio deve dire, sempre, è «vattene»,
«lascia». Ci sono ricchezze, legami sociali, legami affettivi, usanze e
tradizioni, tutto un mondo conosciuto che illude di dar sicurezza e vita. Per
trovare la libertà e la leggerezza e l'armonia di Dio l'uomo deve lasciare,
abbandonare reti, barca e padre! Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni lasciano il
lago, l'ambiente che sostiene col suo pericolo la loro vita. Essi lasciano ogni
situazione normale, danno uno strappo talora straziante. E vanno verso una
terra... che è Gesù stesso, una persona sempre in cammino, che continua a
lasciare ciò che raggiunge. Essi raggiungono Lui, Gesù; lo continuano a
seguire, inseguire e raggiungere: è lui la loro nuova terra, nuova sicurezza,
nuova vita, nuova società, nuova famiglia, nuova gioia, nuova cultura.
Anch'essi dovranno manifestare con un gesto pubblico e
ufficiale, e incisivo nella vita, la loro adesione, la risposta alla chiamata. E
il gesto così importante sarà il loro mangiare e bere la Pasqua nuova. Quel
pasto nuovo li costringe a considerarsi fratelli, popolo nuovo. Quel pasto in
cui bevono allo stesso calice del Signore risuona come una nuova chiamata: non
potranno né dovranno considerarlo un estraneo; è chiamata a vivere tutt'uno
con Lui. Nel contempo quel mangiare e bere conferma la risposta, finché verrà
la prova, poche ore dopo.
Mi vuoi seguire, ma chi stai seguendo?
Gesù o te stesso? Segui Gesù che va incontro alla morte,
che offre la vita? I discepoli della prima ora non hanno superato la prova.
Almeno non subito come Abramo. La prova di Abramo, il terzo passo della
chiamata, che noi chiamiamo Calvario, ritorna ancora sempre per ogni chiamato.
Segui Colui che ti chiama o segui le tue idee di ciò che è buono? Segui Gesù
nell'obbedienza giornaliera al tuo compito, o segui i tuoi sogni, le tue
ambizioni, te stesso? Segui Gesù che ogni giorno ti può chiedere di lasciare
qualcosa, di affrontare una morte di ciò che ti è caro, o cerchi una tua
sistemazione? Ami Gesù o ami te stesso? E' da notare che in questa prova è Gesù
stesso, colui che ti chiama, ad offrirti alla morte. Egli facilita così la
risposta alla tua chiamata.
La conferma definitiva della chiamata avviene dopo che è
superata questa prova: superata attraversando il peccato. Pietro cade nella
prova, cede. Non è pronto, non è capace di affrontare derisione e pericolo.
Pecca. Il pianto sul peccato e il nuovo amore che ne scaturisce suppliscono. E
Gesù godrà che il discepolo confermi la risposta quando gli chiederà: «mi
ami tu?» «Tu sai tutto, Signore. Tu sai che ti amo»! Al che Gesù disse: «seguimi»!
Pietro riceve forza da questa ultima chiamata per svolgere il servizio nella
missione di benedizione che riceve.
Pietro, e gli altri, e anch'io e tu, e chissà quanti,
siamo l'Abramo che ode la Voce venire dall'Alto, voce che chiama. Noi
rispondiamo. La nostra vita è ascoltare e rispondere, rispondere e ascoltare
ancora. Non m'importa vedere il centuplo promesso, m'importa che colui che mi
chiama possa realizzare i suoi disegni. Le mie risposte saranno solo un aiuto
per posare qualche tessera sul mosaico appena iniziato, qualche punto sul ricamo
appena abbozzato. Mia gioia è dire: eccomi, vengo!
Sì, Gesù,
Tu mi chiami. Come Abramo desidero esserti obbediente e docile, voglio
confermare e incidere nella mia carne l'appartenenza a Te, salire il monte del
sacrificio di ciò che Tu stesso mi hai donato. Tu, vero Abramo, rendimi simile
a Te nell'ascolto e nella risposta. «Il Dio di ogni grazia, che vi ha chiamati
alla sua gloria eterna in Cristo, Egli stesso vi ristabilirà, dopo una breve
sofferenza vi confermerà e vi renderà forti e saldi» (1 Pt 5, IO).
Il nome di questo figlio prediletto è un nome inconsueto:
«che Dio rida»! oppure «gioia di Dio». A dire il vero egli è la gioia di
Abramo, è la gioia di Sara, che con la sua nascita si sente rinascere.
Finalmente è donna, finalmente è madre! Ella aveva riso all'annuncio di quel
figlio da parte di Dio. Ora Dio può essere contento davvero perché quella
nascita dà ragione a Dio, ne manifesta la benevolenza, l'onnipotenza e la
fedeltà. Gioia di Dio! La gioia di Dio è pure gioia dell'uomo che ha
lungamente atteso, desiderato, voluto. Ormai Abramo non sapeva più come fare ad
attendere un figlio. Questo fu il Momento dell'intervento di Dio, quando l'uomo
si arrese. Così il figlio poté essere visto soltanto come un dono. Abramo
ricevette in dono «gioia di Dio»!
Il dono ricevuto deve rimanere dono, mai diventare
possesso. Perciò «prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, và...
offrilo in olocausto». Quel figlio è ricevuto da Dio non per possederlo, ma
per donarlo. Isacco è uscito come dono dalle mani di Dio, deve rimanere dono,
uscire come dono anche dalle mani di Abramo. Isacco deve rimanere «gioia di Dio»,
dono perenne che rallegra il Dio dell'amore che si dona.
Abramo dimostra la volontà di donare Isacco: «so che
temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio»... Questa è la situazione
interiore di Abramo che può riavere Isacco. Mentre egli lo scioglie dalla
catasta di legna posata sulle pietre dell'altare si accorge di una nuova
dimensione del dono rinnovato. Nel figlio ora Abramo vede la concretezza della
serietà e della fedeltà del suo Dio; in Lui vede pure un segno della paternità
di Dio. Il vero padre di Isacco è Dio. E' Dio che deve poter gioire di quel
figlio. In Isacco Abramo trova così un aiuto a restare in contemplazione di
Dio, pronto ad accogliere come sorpresa felice tutti i suoi interventi. La
presenza di Isacco è memoria a non farsi sogni e progetti, perché solo Dio
deve godere della vita di un uomo, e di un figlio d'uomo: l'uomo deve godere
solo di Dio. Il dono di Dio, Isacco, è memoria per Abramo a vigilare sulla
tendenza ad attaccarsi alla terra e a progetti terreni.
Per Abramo il figlio Isacco è sempre un dono immeritato e
inaspettato: inaspettato anche la seconda volta, quando il braccio gli vien
fermato nell'attimo in cui sta per sacrificare il figlio; immeritato, perché
l'uomo non può vantare diritti di fronte a Dio.
E' ancora un dono strano, perché trasforma in dono anche
la vita d' chi lo riceve. Isacco esige un continuo amore, una costante
attenzione e fatica, del tutto gratuita, del tutto distaccata da se stesso.
Isacco è dono di Dio all'uomo, ad Abramo, ed è dono dell'uomo a Dio: è dono.
Cresciuto, Isacco stesso, sperimenterà che la propria
vita è tutto dono. A quarant'anni, mentre piange la morte della madre, riceve
in dono Rebecca come sposa. Egli non ha fatto nulla per averla ... !
A sessant'anni, dopo aver pregato, Rebecca sterile riceve
i gemelli: anch'essi quindi dono di Dio.
Della sua vita vien menzionato un altro episodio: i suoi
servi trovano l'acqua a Bersabea mentre egli è assente, a Gerar.
Non sono grandi le vicende della sua vita, ma in esse egli
rimane uno che si lascia fare, si lascia donare! C'è un altro protagonista che
muove la trama dei giorni. Nonostante lui, un altro - Dio - agisce nella sua
storia.
Ciò risalta ancor più evidente nell'episodio culminante
della sua famiglia. Egli, ormai cieco, vuole benedire il figlio Esaù. I suoi
occhi non vedono e la sua mente non comprende le intenzioni di Dio. La sua cecità
diventa così un dono che gli permette di non contrastare la Volontà di Dio. La
cecità lo inganna, impedendogli di sbagliare! e benedice Giacobbe.
L'uomo è sempre un dono per gli altri uomini: e questo
non tanto per le proprie qualità o virtù, per le doti o capacità. Normalmente
sono queste ad essere ritenute dono per gli altri, ma è una visione
superficiale. L'uomo è un dono perché Dio stesso agisce e opera attraverso la
sua presenza! Dio può agire tramite l'uomo incapace, tramite l'uomo stolto,
tramite l'uomo che dorme, tramite l'uomo peccatore, tramite l'uomo ammalato!
L'uomo è perciò sempre dono di Dio: sempre dono da
lasciare a Dio, che ne è il Signore! Dono di cui non impossessarsi: lo si
renderebbe strumento dell'accontentamento delle proprie passioni e dei propri
programmi. In tal caso egli diverrebbe schiavo materialmente o psicologicamente
plagiato.
Di conseguenza non dev'essere possibile lamentarsi di
alcuno, di alcun uomo, perché Dio può agire persino tramite le sue deficienze
e tramite i suoi errori.
Ciò che è vero per tutti è vero per me: io sono un dono
di Dio per gli uomini, per tutti: anche mentre dormo sono gioia di Dio! Di
questo ne sono fiero! ma ciò è tutto volontà di Dio, merito suo: e perciò
divento umile. lo sono dono non per ciò che riesco a fare per gli altri, ma per
ciò che Dio riesce - nonostante il mio agire - a trasmettere a chi mi sta
attorno.
Il vero Isacco però, il vero «sorriso di Dio», Figlio
unico ricevuto dall'uomo come puro dono è Gesù! Di Lui il Padre dice: «in Lui
mi sono compiaciuto»: gioia di Dio! Egli è figlio di Dio e figlio dell'uomo,
ma l'uomo non ha fatto nulla per meritarlo, anzi! né ha potuto far nulla
per procurarlo. L'uomo ha soltanto - tramite Maria dato un po' di fede alla
Parola di Dio incomprensibile e un po' di assenso inconsapevole.
Questo figlio che è «grazia trovata presso Dio» rimane
sempre dono. Non lo si può costringere, né possedere. Lo si può accogliere
quando viene e passa. Costante vigilanza è necessaria per discernere il suo
venire.
I suoi discepoli avevano la tentazione di impadronircene,
di farlo servire ai loro scopi di gloria umana e di comodità: «è bello star
qui: facciamo tre tende, una per te ... ». «Dì che sediamo uno alla tua
destra e uno alla tua sinistra». «Non t'importa che periamo?» «Resta con
noi: si fa buio». Essi lo sentono come un dono di cui farsi padroni. «Un tale
scacciava demoni nel tuo Nome: non era dei nostri, perciò glielo abbiamo
impedito».
Solo il giorno di Pasqua essi lo sperimentano come un dono
che deve rimanere dono. Anzi, quando riceveranno il suo Spirito, il suo Soffio,
anch'essi diventeranno dono di Dio alla sua maniera per il mondo. Diverranno
figli di Dio, sorriso di Dio, agnelli in mezzo ai lupi, sale e luce, lievito
nascosto. Lo diverranno al modo di Gesù.
Egli è cosciente d'esser dono di Dio e vuole inserirsi
volutamente nel disegno misterioso del Padre che lo dona: «offro la mia vita,
la offro da me stesso, nessuno me la toglie». (Gv 10, 17s) «Padre nelle tue mani consegno il mio spirito».
Le esperienze di Abramo e di Isacco coincidono con le
nostre, con le mie. lo posso notare che le persone mature, più armoniose e rappacificate sono quelle che sanno ricevere tutto come
dono del Padre; esse sanno accogliere tutti, piccoli e grandi, giovani e
anziani, coi loro limiti ed errori, come dono!
Queste persone non solo sono mature e pacificate, ma
trasmettono pace, armonia e maturità. Inoltre esse vedono Dio ovunque
all'opera, perché ovunque scorgono i suoi doni. Sono sereni, perché scorgono
il Padre e lo riconoscono come amico degli uomini, datore di ogni dono perfetto!
Talvolta mi ci provo anch'io a ritenere te, così come
sei, un dono. Allora sento che il mio cuore s'allarga, cresce, ama. E per essere
anch'io un dono per te, cosa dovrò fare? Nelle intenzioni di Dio lo sono già,
alleluia! ma se ci volessi mettere tutto, anche la mia partecipazione cosciente
al donare di Dio cosa potrei fare? Credo, cioè sono sicuro che non potrei e non
dovrei fare altro che... unirmi a Gesù.
Mi unisco a Gesù che offre se stesso al Padre, e allora
il mio essere dono per te diventa completo, perfetto. Unito a Gesù sono un dono
che porta frutto.
Sono certo che se volessi fare io qualcosa d'altro, se mi
sforzassi, se mi inventassi metodi per essere un dono per te, riuscirei solo a
rendermi fastidioso. Forse riuscirei a suscitare qualche attimo di simpatia, mi
renderei per un po' centro di attenzione, ma non sarei un dono pronto ad esser
donato.
Quando tengo Gesù in me, o io mi tengo in Lui, allora
sono certo che - nonostante le mie debolezze e il mio peccato - darei a Dio la
possibilità di arricchirti veramente, anche solo con la mia presenza.
Io un Isacco per te, tu un Isacco per me.
Ogni uomo - immagine del Dio dell'amore - mi è messo a
fianco perché io possa vedere il mio Dio, amico dell'uomo, perché io possa
lasciar vedere il volto di Dio, amico dell'uomo. La persona che mi sta vicino può
essere pesante, può essere da sopportare, ed io per lei. Può esser addirittura
occasione di tentazione, di scandalo, oppure può essere aiuto materiale, o
psicologico, o spirituale: ed io per lui altrettanto.
Non mi legherò a lui, perché è un dono. Cercherò
sempre di scorgere le Mani che me lo offrono, il Cuore che me lo presenta. Egli
può offrirlo ad altri. Ed io non accetterò di esser legato ad alcuno, perché
Dio, di cui sono dono, può donarmi ancora altrove. Il dono che ricevo è solo
segno dell'amore di Dio che mi consola, mi aiuta e mi corregge. Devo rimanere
libero di guardare il Volto di Dio e devo lasciar liberi gli altri di fare
altrettanto. Ogni uomo un Isacco, un aiuto a restare in contemplazione di Dio!
La mia bocca si aprirà per dire sempre e soltanto: grazie!
Grazie o
Dio che mi fai dono!
Grazie che
vuoi solo donarmi il tuo amore attraverso molte persone, tutte quelle che
incontro anche solo per un istante.
Ogni uomo
è un segno che Tu ci sei, e sei amore.
Grazie, mio
Dio, per ogni volto d'uomo, tua gioia!
Grazie per
Gesù, sorriso di Dio e mio sorriso, mia gioia!
Quale uomo è vera immagine di Dio, quindi vero uomo? chi
vive un rapporto vero con Dio, un rapporto libero dall'interesse per i propri
sogni o piaceri o comodi. Dopo «l'affare Adamo», che ha costretto gli uomini
come in esilio nel paese dell'egoismo, dell'orgoglio, della gelosia e della
prepotenza, e infine dell'autonomia da Dio, come si fa a conoscere il Volto di
Dio? su quale faccia d'uomo ne posso scoprire i lineamenti? Di chi possiamo
fidarci? Di chi ha superato la prova.
Bisogna cercare quest'uomo esattamente con lo stesso
metodo con cui si cerca l'amico: «se intendi farti un amico, mettilo alla
prova. Non fidarti subito di lui» (Sir 12,
8s; Pr 17, 17; I Sam 20). Non troviamo perciò nulla di strano nell'agire di Dio
con Abramo, Isacco e Giacobbe.
«Ringraziamo il Signore nostro Dio che ci mette alla
prova come ha già fatto con i nostri padri. Ricordatevi quanto ha fatto con
Abramo, quali prove ha fatto passare ad Isacco e quanto è avvenuto a Giacobbe
in Mesopotamia di Siria quando pascolava le greggi di Labano suo zio materno.
Certo, come ha passato al crogiuolo costoro, non altrimenti che per saggiare il
loro cuore, così ora non vuole far vendetta di noi, ma è a fin di correzione
che il Signore castiga coloro che gli stanno vicino» (Gdt 8,25-27).
Fra i tre patriarchi che hanno dato il loro nome perché
il Dio dell'alleanza possa essere identificato e conosciuto, amato e
adeguatamente servito, tanto da esser chiamato «il Dio di Abramo, di Isacco e
di Giacobbe», scegliamo il terzo per osservare le prove cui è stato
sottomesso. Egli, il padre diretto dei dodici capostipiti delle tribù
d'Israele, doveva essere particolarmente preparato a sostenere la lunga catena
di generazioni destinate a credere in Dio superando infinite situazioni di
dolore, di morte, di schiavitù, di peccato, di ribellioni, di tentazioni del
benessere.
La vita di Giacobbe è stata tutta una prova, un
susseguirsi di fatti e situazioni che avrebbero potuto buttarlo nella
disperazione o nella rassegnazione o nell'abbandono di ogni fede e fedeltà.
Potremmo raggruppare le continue prove di Giacobbe in sette punti o stazioni.
«Esaù perseguita Giacobbe... Fuggi a Carran da mio
fratello Labano» (Gn 27,41-45). La
gioia d'aver ricevuto la benedizione di Dio tramite le mani e la voce tremante
del padre si tramuta immediatamente in sofferenza. Essere benedetto, per
Giacobbe, non ha significato iniziare
una vita facile, comoda, da signore! Essere benedetto ha significato
apparentemente e immediatamente maledizione: fuga, abbandono di tutto, distanza
dalla madre, dalla sua protezione, trovarsi nel pericolo, solo, in viaggio verso
méta sconosciuta, essere ospite di parenti che nulla sanno di benedizioni.
Solitudine interiore. Esperienza massacrante, disorientante.
Poi Giacobbe trova una consolazione: il volto di Rachele.
E nella speranza di poterne godere pienamente la dolcezza e la fiducia lavora
sette anni, lunghi anni. Finalmente... «ed ecco, era Lia» (Gn 29,23). Lo zio, il fratello della madre, colui di cui doveva
fidarsi, lo ha ingannato. Giacobbe si vede tradito nel più profondo.
Non può più fidarsi di nessuno, nemmeno di colui di cui
sua madre si fidava ciecamente. E questo tradimento ha conseguenze irreparabili
per tutta la vita: Giacobbe dovrà amare Lia che non ama, verso cui non sente
alcun trasporto, alcuna attrazione.
Egli deve dominare i propri sentimenti, farli sorgere e
farli sparire, esserne padrone attento. E' una nuova solitudine cui viene
consegnato. Non può più rifugiarsi nelle proprie consolazioni né nelle
proprie lacrime. Deve staccarsi da se stesso! Riceve in moglie finalmente anche
Rachele, l'attesa e sospirata consolazione della vita. Ed è proprio lei che lo
getta nella delusione ancora più grande.
Ella ha il coraggio e la sfrontatezza di rimproverarlo
perché non le dà figli (29,30). Come se questa non fosse anche la sua
sofferenza. Giacobbe si rende conto che colei che egli ama non lo ricambia; ella
ama se stessa, ama la propria fecondità, la propria bella figura. «Tengo io
forse il posto di Dio»? Giacobbe si accorge della distanza spirituale della sua
amata, che non s'abbandona a Dio come fa invece lui. Ciò che è dono di Dio, i
figli, non può esser preteso dall'uomo. Rachele non bada a Dio, è atea: se la
prende con l'uomo. Quale prova per Giacobbe!
Almeno a livello materiale Giacobbe è apprezzato: il suo
lavoro rende. Ed ecco che anche a questo livello viene provato: lo zio lo
imbroglia, lo sfrutta, gli fa subire umilianti ingiustizie economiche. E
Giacobbe non può difendersi o ribellarsi: egli è indifeso e ricattato. Lo
sfruttatore è zio e suocero, nonno dei suoi figli. Non gli resta che fuggire,
sicuro che «Dio ha visto la mia afflizione». Tra gli uomini nessuna
gratificazione.
Ma nemmeno Dio lo gratifica. Tutta una notte deve lottare
con Lui, vincere il sonno e resistere alla «violenza» dell'angelo di Dio.
Scopre un Dio, il proprio Dio, come un nemico? no, Dio non gli è nemico, ma lo
mette alla prova, gli toglie le forze perché non cammini più ,Vantandosi della
proprie capacità. Chi si vanta, si vanti nel Signore! E' quando sono debole che
sono forte! Dio gliela dà vinta, bontà sua, nemmeno Giacobbe sa perché: esce
zoppo dalla lotta, ma rinnovato nella fede e nella volontà di camminare nella
luce, di esser fedele alle promesse ricevute. Dio si riconosce vinto dall'uomo:
lo deve nuovamente benedire, perché Giacobbe non si è arreso: qui il segreto
della sua vittoria. Giacobbe ha superato la prova dell'inimicizia di Dio. Ora può
incontrare il fratello.
La gioia di percorrere la terra del padre è nuovamente
spezzata: Rachele muore. Giacobbe ancora nuovamente solo. L'affetto coniugale,
quello più intimo non è più (35,16).
E finalmente l'ultima prova cui è sottoposto l'anziano
patriarca, lottatore e vincitore. li figlio amato e prediletto è odiato dai
suoi fratelli, per invidia, per gelosia (37). Doppio dolore, e perché i figli
odiano e perché il figlio è in pericolo. La tunica di Giuseppe insanguinata
toglie ogni consolazione e speranza all'uomo di Dio, che vive così, come
sospeso tra la vita e la morte, finché anche Beniamino gli vien strappato via.
«Una volta che non avrò più i miei figli,
non li avrò più» (43,14).
Un grido da cui si sente la sofferenza di un uomo che vede
svanire nel nulla tutte le sue speranze, le sue fatiche, l'oggetto della sua
fede.
Le prove incontrate da Giacobbe hanno uno scopo diverso da
quelle di Abramo. A questi è messo alla prova l'amore: ami Dio più di te
stesso, più di tuo figlio? La prova continua cui è sottoposto Giacobbe è una
scuola di purificazione. Egli vien provato nel senso che vien liberato da tutti
gli «amori» umani, le consolazioni, le gratificazioni. Vien fatto passare per
un deserto di solitudine e d'abbandono totale. La sua fede resiste e matura e
dona ai suoi discendenti l'immagine di un Dio vivo che va amato per se stesso,
non per i benefici che da Lui si possono sperare e ottenere. Anche la sua
esperienza servirà nei secoli a conoscere e identificare il Dio vivente e a
sostenere l'adorazione presso il popolo.
«Proprio per esser stato messo alla prova ed avere
sofferto personalmente è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la
prova» (Eb 2,18).
Così è scritto di Gesù, che rivive le prove cui sono stati sottoposti i Patriarchi. Egli realizza nella propria carne le Scritture. Gesù è l'uomo che passa per il crogiuolo del dolore e così mostra la presenza di Dio non solo nelle vicende di Giacobbe, ma anche in quelle di ogni credente e di ogni uomo. Le sofferenze delle prove di Gesù danno Consolazione ad ogni uomo provato e sofferente; in quella situazione infatti, che sembra dimostrare l'abbandono da parte di Dio, c'è invece la presenza più sicura del Dio dell'Amore, del Dio che si dona e chiede di partecipare al suo essere Dono.
Le prove di Gesù non sono purificazione del Suo Amore, già
puro, ma manifestazione ai nostri occhi impuri della purezza dell'amore di Dio.
Egli soffre quando offre al Padre il proprio essere uomo. Il dolore della carne
martoriata e la sofferenza dell'anima tradita diventano offerta dello spirito,
espressione ultima dell'amore.
La via percorsa da Gesù, e prefigurata dal terzo
patriarca che soffre in quanto fratello e sposo e padre, è l'unica via aperta
verso Dio Padre, verso casa nostra! verso la destinazione finale, la
beatitudine! Su questa via però noi non tentenniamo né per inesperienza né
per debolezza! «Simone, Simone, Satana vi ha cercato per vagliarvi come il
grano. Ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede. E tu, una volta
ravveduto, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22, 3 1).
Chi si incammina per la via della fede trova la croce, ma
c'è la luce e la forza della preghiera di Gesù stesso e c'è sempre un
fratello «ravveduto» che mi fa da guida. E difatti, in qualunque prova o
sofferenza, lo sguardo a Gesù che prega dalla sua croce, e la mano al fratello
che ha già sofferto, diventano sicurezza, coraggio, e persino gioia. La gioia sarà ancora più grande quando potrò anch'io allungare la mano a
qualcuno e indicargli il Capo coronato di spine: allora alla mia sofferenza
s'aggiunge una nuova motivazione, la consolazione dei fratelli. S. Giacomo (1,2)
perciò può esortare: «considerate perfetta letizia, fratelli, quando subite
ogni genere di prove» e S. Pietro (]Pt 45 13) «Rallegratevi,
perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed
esultare». Queste sono solo un'eco delle parole di Gesù: «Il Figlio dell'uomo
deve soffrire molto, essere riprovato..., esser messo a morte ... »
(Lc 9,22).
Un po' di paura, o forse molto spavento di fronte
all'imminenza di nuove prove. Riuscirò a restare fedele? «Dio è fedele e non
permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà
anche la via d'uscita e la forza per sopportarla» (1 Cor 10, 13).
E questa forza è ancora una volta comunicata dalla
contemplazione: «Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé
una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate, perdendovi
d'animo» (Eb 12,3).
Non dovrei aver paura e non dovresti temere. Il passare
nella prova ci rende idonei ad essere fratelli degli uomini, figli di Dio
partecipi delle sue ricchezze d'amore. Non vivrò le sofferenze perciò con
rassegnazione, come costretto; anzi, come ci aiuta il Salmo chiediamo a Dio di
metterci alla prova: «Scrutami, Signore, e mettimi alla prova; raffinami al
fuoco il cuore e la mente» (Sal 26).
«Scrutami o Dio e conosci il mio cuore / provami e conosci i miei pensieri /
vedi se percorro una via di menzogna / e guidami sulla via della vita»
(139,23).
Però non
mi fido delle mie forze, ma del tuo aiuto, Padre: «non c'indurre in tentazione»,
non lasciarci cadere nella prova.
Con Giacobbe come segno, dono ed esempio, non mi voglio
sottrarre alle prove che Tu mi doni per purificarmi e per provare il grado
purezza del mio amore. So che la vite destinata a portare frutto deve lasciarsi
potare i tralci. Così Tu, Gesù, vite vera, permetti che io, tuo tralcio,
assapori la durezza delle forbici del Padre: che anche così mi dimostra di
amarmi, di occuparsi seriamente di me.