Venite,
applaudiamo al Signore!
Salmo 95 (94)
Ogni
giorno, da duemila anni, la comunità dei cristiani, la Chiesa, inizia le sue
giornate cantando un salmo d’invito alla preghiera. Di solito questo Salmo è
il 95. Lo scegliamo, insieme con alcuni versetti dell’Apocalisse, per
introdurci alla conoscenza e contemplazione del Padre.
La
pienezza della rivelazione di Dio Padre ci viene donata da Gesù, anzi, dallo
Spirito che Gesù risorto alita su di noi. Questo santo e vivificante Spirito ci
illumina pure tutte le Scritture, affinché in esse possiamo trovare quei
lineamenti del volto di Dio, che poi riconosciamo presenti e operanti nella
vita, nelle parole, nei sospiri del Figlio suo!
Vieni,
Santo Spirito, aprici mente e cuore, aprici occhi e orecchi, e ameremo il Padre
del Signore Gesù, e - trasformati dalla sua Luce - diverremo strumento della
sua rivelazione al mondo, che egli ama e vuole salvare!
1.
1
Venite,
applaudiamo al Signore,
acclamiamo
alla roccia della nostra salvezza.
2
Accostiamoci a lui per rendergli grazie,
a
lui acclamiamo con canti di gioia.
Mi sono recato più
volte nella città in cui, con la benedizione della Chiesa, la nostra comunità
è presente in Turchia. È una città totalmente islamica, e i suoi abitanti
sono molto fedeli e attenti a seguire le indicazioni e i precetti dati loro dal
Corano e dalle tradizioni sunnite. Al mattino presto, quand’è ancora buio,
risuona e riecheggia più volte il canto dall’alto dei minareti. Non comprendo
le parole arabe, che vengono trasformate in ampie modulazioni: m’è stato
detto però il loro significato. Esse sono una affermazione dell’unicità di
Dio, una professione di fede in lui e in Maometto, ritenuto suo profeta; si
concludono con il ripetuto invito: «Venite alla preghiera, pregare è meglio
che dormire!» Lo stesso canto quasi e le stesse parole risuonano con forza
altre quattro volte lungo la giornata accompagnando il movimento del sole fino
al suo scomparire all’orizzonte. Venite alla preghiera!
Mi sono ricordato di
questo canto questa mattina, quando con tutta la Chiesa di Dio ho iniziato la
giornata cantando: «Venite, applaudiamo
al Signore!». Tutti insieme ci invitiamo gli uni gli altri e accogliamo
l’invito che risuona dalle labbra dei fratelli: Venite, applaudiamo al Signore!
Chi è questo «Signore»
che ci invitiamo ad applaudire e acclamare? Già il fatto di volerlo applaudire
rivela che Egli è una persona importante, è Qualcuno cui dobbiamo molto, è
Uno che ha suscitato gioia e speranza nel nostro cuore. Applaudirlo o acclamarlo
è un voler attirare l’attenzione anche degli altri sulla sua presenza, una
Presenza che è ricchezza e benedizione per tutti.
Applaudirlo è perciò
al tempo stesso manifestazione di gioia, frutto della sua vita e amore agli
uomini distratti, perché, richiamati dal canto, concentrino - rivolgano cioè
al centro comune - il loro sguardo e il loro ascolto.
Il primo motivo che
suscita ammirazione verso Dio è espresso dall’immagine che richiamiamo: «roccia
della nostra salvezza».
Ci spostiamo nella
cultura della vita ancora nomade o seminomade del popolo d’Israele, che doveva
difendersi da incursioni e razzie di tribù rivali e mettersi al sicuro da
nemici di varia natura. Il luogo più adatto a tale scopo è qualche altura
rocciosa sulla quale nessuno possa arrampicarsi e dalla quale facilmente si
possa respingere l’attacco di nemici o predoni.
La rupe della salvezza,
il luogo irraggiungibile per il nostro peggiore nemico è il cuore di Dio!
Quando ci fissiamo in lui, chi ci può far del male? Egli è un papà. Il nostro
salmo non sa usare ancora questa parola, ma già comincia a suscitare in noi
quei sentimenti e a provocare quegli atteggiamenti che nascono e crescono alla
presenza di un papà, di un vero papà. Li vedi quei bambini che, la sera,
quando sentono i passi del papà salire le scale, di ritorno dal lavoro, si
alzano felici e battendo le mani gli corrono incontro?
Ecco, noi siamo quei
bimbi, che di mattino, appena svegli, già ci accorgiamo del nostro Papà e gli
battiamo le mani perché egli starà tutto il giorno con noi, non ci lascerà
nemmeno per un momento, e noi staremo sicuri e sereni, senza temere di nulla.
Alla sua presenza ci sentiamo come su una roccia, al sicuro: possiamo andare e
venire, cantare, lavorare e riposare; nessuno ci raggiungerà per farci del
male. Dio, il nostro Dio, ci ha posto al sicuro nelle sue braccia, braccia di
papà forte e vigilante. Egli è rupe di
salvezza!
Posso continuare a
ringraziarlo, anche per te, posso cantare e unirmi al tuo canto di gioia e
libertà!
Venite,
applaudiamo al Signore!
2.
3 Poiché
grande Dio è il Signore,
grande
re sopra tutti gli dei.
4
Nella sua mano sono gli abissi della terra,
sono
sue le vette dei monti.
5
Suo è il mare, egli l'ha fatto,
le
sue mani hanno plasmato la terra.
Per applaudire il nostro Dio abbiamo dei motivi; il
principale è la scoperta che facciamo, o la rivelazione che ci viene data,
della sua grandezza. Egli è grande! La parola ‘grande’ si addice solo a lui, perché non c’è nulla e nessuno
che lo superi, anzi, tutte le cose e tutte le persone, confrontandosi con lui,
risultano davvero piccole, se non addirittura insignificanti.
Egli è grande Dio: cosa vuol dire la parola ‘grande’?
I significati possono essere molteplici e vari, e dipendono da ciò che metto a
confronto al mio Dio, quando sto davanti a lui; con questo termine confesso la
mia piccolezza, una mia sostanziale incapacità a stare alla pari con lui. Egli
è grande, perciò non lo giudico, non gli insegno nulla, non pretendo
di essere considerato da lui, non lo raggiungo. Egli è grande, perciò vivo sempre facendo conto su di lui, sulla sua
potenza e capacità, come il bambino che confessa e proclama la grandezza di suo
papà e perciò non teme i compagni e non dispera dei piccoli guai che commette:
il papà può aggiustare tutto!
Egli è grande
anche di fronte a tutte le immagini di Dio che l’uomo si forma, e di fronte a
tutte quelle cose che pretendono di avere nel mio cuore il posto riservato da
sempre al vero Dio!
«Grande re sopra
tutti gli dei!» Tutti gli dei, cioè tutte le cose e abitudini e usanze che
hanno un peso nella vita, quelle realtà cui io non vorrei rinunciare, quei
valori che mi hanno dato soddisfazione e quelle realtà da cui spero
gratificazione, tutti questi “dèi” sono sottomessi al mio grande Dio! Egli
è il re, colui cui io permetto di dominare in mezzo a tutte le realtà
importanti. Queste, se Egli regna su di loro, rimangono realtà belle, strumenti
di vita e non divengono idoli di morte.
Se invece dimentico la grandezza di Dio, la sua priorità
su tutto, ogni cosa diviene un assoluto, diventa idolo che soffoca la vita.
«Grande re sopra
tutti gli dei»: la sua grandezza, una grandezza amata e benefica, permette
il ridimensionarsi di tutto il resto, che viene ad occupare il proprio posto in
un ordine della vita e del creato che si armonizza con semplicità.
La grandezza di Dio è la grandezza del papà, che
orienta, corregge, dà valore alle piccole cose e tiene a freno quelle più
grandi, tutto per il bene dei suoi figlioli.
«Nella sua mano
sono gli abissi della terra!».
Se osservo la grandezza del mio Dio non mi fa più paura
nulla: gli abissi della terra sono quelle zone nascoste della vita umana sulle
quali io non ho alcun potere; sono quelle circostanze del nostro cammino che non
possiamo dominare, dentro le quali ci potremmo solo perdere: malattie, disastri
sociali, ingiustizie, situazioni impenetrabili alle limitate capacità sia dei
singoli che della società.
«Nella sua mano…»
La grandezza di Dio è tale che egli può adoperare, redimere, rendere utili
anche queste emergenze che a me fanno solo paura. Anche questo è nella sua
mano: di che cosa e di chi avrò paura? Le sue mani sono quelle che hanno
plasmato la terra, e perciò la conoscono bene; sono le mani che accarezzano le
montagne irraggiungibili e giocano con le profondità dei mari.
Quel Dio cui applaudiamo merita davvero gli applausi.
Ogni cosa che per noi ha del tremendo e del pauroso, del misterioso e
dell’incerto, per lui è come giocattolo che il papà custodisce e passa di
volta in volta alle mani e allo sguardo stupito dei suoi bambini, lo consegna
loro e poi lo riprende per custodirlo di nuovo.
Dio è grande davvero, grande come un papà agli occhi
del suo bambino! Per lui l’immensità degli oceani e l’altitudine dei monti
sono piccole cose tranquille: cercherò di guardare anch’io alle mani che le
hanno plasmate e allora non sarò preso da paura o da timore di fronte ad esse.
Grande è solo il nostro re, Dio, il Padre!
3.
6 Venite,
prostrati adoriamo,
in
ginocchio davanti al Signore che ci ha creati.
In questa - ormai nostra - preghiera del mattino
continuiamo l’invito già risuonato all’inizio: Venite! A chi faccio io questa proposta? Chi voglio chiamare a
partecipare al mio applaudire, alla mia gioia, alla mia contemplazione? Chi sta
ascoltando queste mie parole? Chi accoglierà la chiamata e muoverà i suoi
passi insieme con i miei?
Vorrei che nessuno fosse sordo, vorrei che nessuno
dormisse ancora. Io non pongo limiti: venite!
Chiunque può udire la mia voce che chiama: vorrei gridarla anch’io
dall’alto del campanile e darle ali perché arrivi lontano ed entri da ogni
porta e finestra insieme alla prima luce dell’aurora!
Venite!
Può venire il peccatore, colui che sente pesare sul
cuore azioni compiute senza amore, può venire il povero, il debole, colui che
soffre per il peccato di altri, ma può venire anche colui che sta facendo
soffrire, può venire il papà che non è stato capace di fare il segno di croce
in presenza dei suoi figli, può venire la sposa che ha risposto male allo
sposo, può venire il bambino preoccupato dei suoi compiti da portare a scuola e
quello contento d’aver completato l’album di figurine! Può venire
l’anziano che non ha dormito stanotte e può venire il giovane felice d’aver
ricevuto ieri il sorriso più bello dalla ragazza dei suoi sogni.
Venite!
Che cosa faremo? Come continueremo l’applauso al nostro
grande Dio? Faremo così: ci prostreremo, adorando! Piegheremo le ginocchia,
curveremo le spalle, toccheremo la terra con la fronte! Cercheremo di abbassarci
talmente da non porre più ostacolo alla luce, in modo che essa non debba creare
zone d’ombra. Ci metteremo nella posizione di colui che vorrebbe scomparire
perché risplenda in tutto il suo fulgore la Presenza di Colui che amiamo!
Prostrati
adoriamo!
La parola «adorare» è nata dal cuore di una mamma che
invitava il bambino ad accostare la mano alla bocca per mandare dalla finestra
un bacio al papà già sceso per andare al lavoro!
Venite,
adoriamo!
Esprimiamo con piccoli gesti il nostro amore a Colui che
non possiamo abbracciare, a Colui che non possiamo raggiungere né con le mani né
con la bocca, ma e mani e bocca ancora si muovono verso di lui!
Prostrati
adoriamo!
Il nostro gesto di amore coinvolge non solo mani e bocca,
ma tutto il nostro essere, corpo e anima. Il corpo si piega, si rannicchia, si
abbassa, le ginocchia toccano terra in una posizione di non resistenza, quasi a
dire la volontà di essere impotenti, disarmati completamente. Questi movimenti
del corpo ci aiutano a piegare pure quell’orgoglio che in noi non muore mai,
che continua a rimettersi nella stessa posizione anche dopo esser stato piegato,
come una molla, come un ramo di una pianta che si rialza quando cadono i frutti
che lo tenevano abbassato.
Venite,
adoriamo, in ginocchio!
Il nostro orgoglio e la nostra superbia devono piegarsi
subito, fin dal mattino, davanti al nostro Dio e alla sua grandezza, altrimenti
oggi potremo credere d’esser padroni di noi stessi e delle cose che ci sono
affidate, e non vedremo più la bellezza del creato né udremo la voce del
Creatore e faremo soffrire coloro che da noi attendono gioia! Piegando le
ginocchia e curvando la fronte «davanti
al Signore che ci ha creati» si spezzerà quell’orgoglio che tende a
trasformarsi in superba autosufficienza e in inutile e dannosa vanagloria.
Siamo davanti a colui che ci ha creati: come potremo
dimenticare le nostre origini?
Usciamo dalle mani che con molta cura e attenzione hanno
reso concreto un amore infinitamente sapiente!
Nessun uomo, scienziato e ricercatore, è ancora riuscito
a mettere in luce tutta la sapienza degli infiniti invisibili congegni che
legano le varie particelle del nostro sangue a tutti gli organi di cui è
intessuto il nostro corpo!
Ci inginocchiamo davanti a colui che ci ha creati, e che
conosce quindi non solo la funzionalità delle singole cellule delle nostre
membra, ma anche il loro significato in ordine al nostro ultimo fine, lo scopo
del nostro essere qui ora.
Egli ci ha messi qui, egli ha pensato questo tempo come
il migliore per noi, e noi adatti per le circostanze in cui ci troviamo. Egli è
davvero il «Signore»: piego le
ginocchia davanti a lui, nell’attesa che egli manifesti i suoi desideri e i
suoi progetti dentro i quali impegnare tutto il mio amore e la mia volontà!
Venite,
adoriamo!
4
e
noi il popolo del suo pascolo,
il
gregge che egli conduce.
Ci troviamo ancora in
ginocchio e continuiamo l’invito all’adorazione rivolto a tutti gli uomini.
Ad essi abbiamo presentato la grandezza di Dio, una grandezza che noi percepiamo
ogni volta che apriamo gli occhi sulle piccole e grandi cose che ci circondano e
ogni volta che li chiudiamo per sondare le profondità del nostro cuore e dei
ricordi della nostra vita passata e i sogni per quella futura. Ora continuiamo a
parlare di lui: «Egli è il nostro Dio»!
È una confessione
preziosa. È come dire: noi non siamo soli. C’è qualcuno che noi riconosciamo
presente e operante, qualcuno più grande di noi a cui preme la nostra
esistenza, a cui abbiamo affidato la nostra storia. Noi non siamo protagonisti
se non del nostro rapporto con lui. Chi vuol conoscerci deve conoscere anche
lui, chi vuole incontrarci deve incontrarsi con lui, chi ci vuol bene riceve il
suo favore, chi si fa nostro nemico si rende nemico a lui! Egli è il Signore
Dio: siamo perciò al sicuro, perché colui che ci ha creati, ci ha amati, e
continua ad amare e apprezzare l’opera delle sue mani! Egli è il nostro Dio!
Col termine «dio» ci
siamo abituati ad indicare quella realtà cui gli uomini fanno continuo
riferimento per le loro scelte. Per questo diciamo che qualcuno ha come dio il
denaro, altri il potere, altri il piacere sessuale, altri la gloria umana, anche
se acquistata solo con sforzo di muscoli atletici o di intelligenza
organizzativa e scientifica. Queste seducenti realtà che tanto attirano e
possiedono il cuore di molte persone, sono in pratica degli «dèi»; degli dèi
però traditori e ingannatori che non riescono a spiegare il passato dell’uomo
né a dargli speranza per l’eternità. Il loro influsso s’interrompe
bruscamente e inesorabilmente con la morte, se non addirittura con una semplice
malattia o con un imprevisto insuccesso. Sono perciò dèi che noi riteniamo
idoli, vanità, nulla! T’appoggi su di loro, ed ecco, sei appoggiato sul
vuoto!
Io mi appoggio su colui
che tiene in mano le stelle e ha creato la mia vita. Egli è il nostro Dio. A
lui posso fare riferimento sicuro, tanto che proprio in questo riferimento a lui
si rivela la mia e la nostra identità. Chi sono io? Chi siamo noi?
Siamo «il
popolo del suo pascolo, il gregge che egli conduce».
Ecco chi siamo noi,
ecco chi sono io. Io non sono solo, ma membro di un popolo, perché colui che ha
amato e creato me non ha pensato solo a me. Siamo popolo del suo pascolo! Egli
non si è limitato a creare, ma continua ad occuparsi di noi, proprio come un
pastore che non solo acquista le pecore, ma, una volta acquistate, pensa a
condurle, nutrirle, difenderle, curarle, farle riposare.
Ogni cosa che ci
succede trova la sua spiegazione e il suo significato in questa cura del Pastore
grande ed eterno. Noi siamo davvero riconoscibili soltanto alla luce del
rapporto che Lui, il Pastore, ha con noi. Senza questo rapporto, chi saremmo
noi? Un po’ di fumo che si disperde, erba che, falciata, dissecca, rami
tagliati di cui non si conosce l’albero di provenienza, lattine abbandonate ai
bordi della strada. Ecco però che il rapporto che abbiamo col nostro Dio rivela
la nostra più profonda e bella identità.
Verso un Dio che si
rivela pastore attento e premuroso nasce in noi affetto, cresce fiducia, e, di
quando in quando, nelle occasioni di difficoltà grandi, sorge in noi il
desiderio di lasciar fare a lui: ci abbandoniamo alla sua cura come il bambino
alle braccia della mamma. Allora non chiamiamo più il nostro Dio soltanto
nostro pastore, ma troviamo per lui più connaturale la parola che solo il cuore
osa pronunciare: padre! papà!
Non oseremmo formulare
queste sillabe semplicissime se non l’avesse fatto già, per primo, Colui che
si è abbandonato alle mani di Dio fin dentro la propria morte.
Egli ha osato
pronunciare questo nome persino dall’alto della croce, alla presenza di coloro
che l’avevano giudicata presunzione meritevole di morte. Proverò anch’io ad
osare rivolgermi a Colui che mi ha creato con la confidenza e la fiducia che
questa parola comporta. Pensa pure quello che desideri di me; considerami
presuntuoso oppure infantile… sono però certo che la risposta del Padre al
mio atteggiamento verso di lui sarà un sorriso, e un tendermi le braccia per
sostenermi, per lavarmi e curarmi!
Noi, «gregge
che egli conduce»! Noi, amati continuamente, seguiti passo passo, osservati
con cura premurosa, diciamo:
Padre! Tu sei il nostro
Dio, ti adoriamo amandoti!